venerdì 20 marzo 2015

Ci penso spesso

Ci penso mentre faccio la spesa, mentre appoggio le lattine di Moretti sul nastro scorrevole della cassa, mentre saluto la vicina di casa, quella che sta sempre affacciata al terrazzo. Ci penso mentre passa alla radio sogna ragazzo sogna, ti ho lasciato un foglio sulla scrivania, manca solo un verso a quella poesia, puoi finirla tu. Ci penso mentre in macchina percorro il lungo viale alberato verso lo studio, mentre parcheggio. Ci penso mentre suono il campanello, mentre spingo il portone pesante. Ci penso mentre, seduta in sala d’attesa, faccio finta di leggere quelle riviste di viaggi piene di pubblicità. Ci penso mentre fisso il poster con una sorridente dottoressa di mezza età a braccia aperte: problemi di incontinenza? Parlane con il tuo medico. Ci penso anche la mattina presto, in quei cinque minuti fra la prima e la seconda sveglia. Ci penso mentre scelgo il maglione da indossare oggi, mentre mi infilo gli stivali, mentre taglio con le forbici il cartone del latte. Ci penso quando mi accorgo che il quadro che ho appeso ieri è storto e lo vado a raddrizzare. Ci penso mentre sento il rumore di un treno che passa in lontananza, mentre scendo le scale per andare a firmare la ricevuta di un pacco appena arrivato. Ci penso mentre mi sto accorgendo che non è più estate, che fa freschino, che le foglie sono tutte per terra e i rami tutti spogli. Ci penso mentre leggo Murakami, che non so ancora se mi garba o no, ma ormai lo voglio finire. Ci penso asciugandomi i capelli e infilando il cd di Pierangelo Bertoli nell'autoradio. Ci penso quando piove forte e quando il cielo si rischiara, quando il sole sembra che torni, e invece ripiove. Ci penso mentre aspetto all'aeroporto il volo delle sei e un quarto da Berlino, mentre infilo le monete nella macchinetta del casello autostradale. Ci penso anche mentre la cameriera ci prende l'ordine e non ho ancora deciso se mangiare un primo o la pizza. Ci penso mentre canto una ninna nanna a Bruno, e lui piano chiude gli occhi. Prima era sveglio, ora dorme. Prima non c'era, ora c'è. Insomma, ci penso spesso.

venerdì 14 settembre 2012

The Story of Bow & Arrow

(Marina Abramović)














The arrow shows the direction
you absolutely should head for.
It's quite easy:
you just have to follow the arrow.
So the man follows the arrow that points
tremblingly, patiently, irretrievable
to her heart.
But even though they're close together,
it might be off target in the end.

mercoledì 12 settembre 2012

a/r

Partire di mattina con il sole che sorge piano
e piano colora i fili d'erba e l'asfalto
il cielo sopra Camp Darby
i tronchi dei pini e le ringhiere dei cavalcavia.
Ritornare di sera
appoggiare la testa al finestrino
guardare lo stesso paesaggio
e accorgersi che non è cambiato nulla
tranne la luce.

martedì 28 agosto 2012

se fossi



















Se tu fossi un colore saresti un blu scuro con
dei riflessi di luce argentata.
Se fossi un materiale saresti anthracite
duro, ma fragile;
costoso perchè difficilmente reperibile.
Se fossi una canzone saresti
Jazz Carnival degli Azymuth
ascoltata dal jukebox in un bar di Kreuzberg.
Se fossi una pianta saresti  un pioppo tremulo
con il tronco chiaro e dritto
e i rami sottilissimi protesi verso il cielo.
Se fossi una foto saresti una Polaroid
scattata nel 1979
con una data scritta dietro a pennarello.
Se fossi un suono saresti lo scricchiolio
che fanno i nastri quando la cassetta inizia a girare
ma a volte anche il rumore ritmico della pioggia battente
in certi pomeriggi di novembre.
Se fossi un'atmosfera saresti quella che si respira sul mare
verso l'ora di pranzo
sul finire dell'inverno
quando il sole incomincia a intiepidirsi
ma subito dopo la tramontana congela le mani, la faccia.
Se fossi un odore saresti l'odore che resta sulle labbra
dopo aver bevuto il primo sorso di birra in bottiglia
ma anche anche quello del salmastro che resta sui vestiti
dopo una notte passata seduti
appoggiati a un patino.
Se fossi un luogo saresti piazza Mascagni negli anni Sessanta
o la New York di quegli anni lì.

Se fossi un ricordo saresti un ginocchio su cui appoggiare la testa e dormire dieci minuti

di mattina

alla stazione.

sabato 18 agosto 2012

Prima o poi.



















Can you hear me Major Tom?

Un segno di vita.

Prima di notte.
  Prima o poi.

Sarebbe bello.




martedì 14 agosto 2012

Un momento prima c'era tutto



Affettare cipolle e piangere. Affettare e piangere, piangere. Quando si affettano cipolle non si può fare altro che piangere. Per il resto cercavo di non dimenticare nulla, di leggere per l'ultima volta quelle frasi, di ritrovare un'espressione, un tono di voce, ma niente. E' inverosimile come un momento prima c'era tutto, e un momento dopo lo cercavo, ma era scomparso, portato via da un clic, da una decisione presa di notte, con le zanzare aggrapate alle pareti, la finestra semiaperta, la luna calante e un posacenere accanto al cuscino. Cercavo il suo nome, i suoi rumori, un qualunque segno di vita di questa specie di amore bidimensionale. 

Questo vuoto, 
la voragine aperta in questi pomeriggi d'agosto, 
l'assenza senza l'attesa
-come quando finisce un concerto e i musicisti cominciano a smontare davvero, caricano gli strumenti sul furgone e se ne vanno,
questo capolinea, 
questa conclusione definitiva, 
questo the end 
non erano contemplati tra le possibilità. 

Ricordare tutto, incidere le sfumature, solo questo resta, solo una specie di pellicola impressa di odori, suoni, temperature, colori, vento sulla pelle, immagini traballanti sullo specchietto retrovisore mentre ti faccio strada verso un arrivederci
-che forse sapevamo essere un addio. 

Certi materiali riciclabili li accumuliamo in appositi contenitori perchè ci hanno detto di lasciare il mondo un po' meglio di come l'abbiamo trovato. Certe persone le chiudiamo in una scatola di cartone perchè ci hanno insegnato a conservare tutto. Certe notti le passiamo a camminare e raccontare perchè siamo soli, e abbiamo bisogno di mettere le nostre solitudini a confronto.

Ho comprato un libro per te, un libro che non posso regalarti. Ho comprato un libro che non ti darò mai, ma posso scriverti queste poche righe. Queste poche righe che sono il mio regalo per te.


[...]

Ringraziamo. Ogni tanto. 
Sia placido questo nostro esserci - 
questo essere corpi scelti 
per l’incastro dei compagni 
d’amore. 


Mariangela Gualtieri
"Bestia di gioia"


sabato 28 luglio 2012

Non ti perdere


Avrebbe voluto contare tutte le parole -una per una, registrarle con un Panasonic dell'84, riascoltarle sdraiata sul letto di una stanza umida e in penombra verso le sette di sera, decidendo di non cenare quella sera. Oppure in macchina, parcheggiata in un pratino con l'erba secca guardando un sole già tramontato. D'estate si dice che le giornate siano più lunghe, ma anche le notti a volte sembrano non passare mai. Avrebbe voluto registrare il rumore che faceva nell'appoggiare il tabacco sulla cartina, rollare la sigaretta, leccare la colla, strappare il pezzetto di carta avanzata, accartocciarlo, il rumore delle labbra che si staccano dal filtro, dal collo di vetro di una bottiglia di Heineken, dalla tazzina del caffè. Avrebbe voluto fotografare i dettagli con una Polaroid, il rosso scuro di un pezzo di stoffa che s'intravede dai pantaloni, il giallo di una scritta. Il colore della pelle di un viso che cambia da un giorno all'altro, il colore del dorso delle mani, dei gomiti, della nuca. Avrebbe voluto fotografare la posizione in cui stava seduto al tavolino di un bar, il modo in cui accavallava le gambe, misurare la velocità e l'ampiezza del gesto con cui si spostava i capelli dal viso. Avrebbe voluto memorizzare tutte le pieghe dei pantaloni, lo spessore delle suole consumate delle sue scarpe, i bottoni della camicia, l'attaccatura dei capelli, la forma delle unghie, il contorno della sua figura vista da lontano mentre chiedeva da accendere, l'odore rimasto per qualche giorno su una maglietta bianca con delle righe rosse davanti.

D'estate c'è come uno svelarsi prematuro dei corpi. Le braccia, le gambe, le schiene scoperte. D'estate le giornate sono più lunghe ma c'è come una fretta obbligata di mettere a nudo tutto e subito, di arrivare allo stomaco senza passare dalla bocca, dalla faringe, dall'esofago.

Avrebbe voluto guardare quel film al rallentatore, premere il tasto rew almeno due, cinque, otto volte e poi play lento. Lento. Lento. Come il processo della digestione. Avrebbe voluto dirgli tante cose, raccontare di quella volta che di notte aveva scoperto che lei non aveva ancora portato via il suo pianoforte, raccontare di quando era in terza liceo e cercava una maniera per non soccombere e un giorno la bidella aveva chiesto a voce alta alzi la mano chi vuole fare teatro, descrivere il tragitto che faceva in autostop dalla stazione di Ferrara a Pontelagoscuro, cantargli la prima strofa di una canzone che aveva inventato qualche anno fa. Avrebbe voluto chiedergli di che colore sono le sue lenzuola preferite, che sapone usa per lavare i panni, cosa si vede dalla finestra della sua cucina. Avrebbe voluto sapere a cosa pensa la notte prima di addormentarsi, come sta seduto quando legge, se mangia lo yogurt e a che gusto, se scrive dei biglietti di auguri per Natale e con che calligrafia. Chi aveva votato alle ultime elezioni, chi pensa di votare alle prossime. Avrebbe voluto vederlo almeno un'altra volta, almeno per qualche ora. Avrebbe osservato con cura le mani, i polsi, le spalle, l'espressione della faccia, l'inclinazione del collo, per trovare nei dettagli il senso dell'intero. Avrebbe voluto averlo incontrato di mattina presto, in un giorno di primavera, quando tutto deve ancora cominciare e gli alberi sono pieni di germogli e di promesse. Avrebbe voluto incontrarlo a piedi, da solo, un attimo prima del sorgere del sole, quando la luce che entra dalle finestre semiaperte è ancora fioca e gli uccellini non cantano ancora. Invece l'ha incontrato una sera d'estate e l'estate non fa sbocciare i fiori, fa maturare i frutti. E l'erba si secca tutta, le foglie sono ancora attaccate ai rami ma sanno già che l'autunno verrà per farle cadere, che nulla di ciò che vive è per sempre. D'estate le cose vive si preparano a morire.

 -Non ti perdere. Questo il suo regalo.

E non perdersi in questi lunghi corridoi di luci al neon e soffitti altissimi è veramente quasi impossibile.

Ma è una ragazza intelligente e non si perderà.

venerdì 6 aprile 2012

C'era una volta

C'era una volta una schiena. Una schiena diritta, il caffellatte con le fette biscottate, il giornale di oggi e quello di ieri. C'erano le otto di mattina e le quattro del pomeriggio e speriamo che oggi non piova. Un certo spessore, un peso, la lentezza, una lentezza estrema. I passi misurati, le soste. C'erano i maglioni di cashmeare, i pantaloni con la riga stirata perfetta, i fucili nella fuciliera, le scarpe nella scarpiera, il sapone sul lavandino, il tovagliolo di stoffa e quelli di carta. C'erano loro due insieme. C'erano le loro voci arrabbiate, incerte, severe, rassicuranti, interrogative, deluse, comprensive. C'erano le loro voci in tempo di guerra e in tempo di pace. Le loro voci c'erano. Ora, solo un grande silenzio.

giovedì 5 aprile 2012

A causa della gioia














che tristezza
tu ed io
e nient'altro
che tristezza


Non li ho sentiti entrare perchè ascoltavo Mother dei Pink Floyd a tutto volume. E chissà se è un caso che dalla finestra semiaperta vedevo la luce diventare ombra per un momento. Mi tolgo le cuffie e non mi danno il tempo di spengere il fornello, di richiudere il barattolo del caffè. I pomeriggi semplicemente accadono, anche se non fai nulla, anche se non dormi, non parli, non telefoni a nessuno. Le sere entrano dalla finestra e portano ancora l'odore dei glicini che sono lontani parecchi chilometri.

cercando dio tra le gambe
di un tavolo


Senza occhiali ormai non vedo più niente. Ti leggo su questo libro con le pagine un po' ingiallite e mi commuove anche la dimensione dei caratteri, le parole balsamiche, le parole lenitive, le parole annodate, affilate, tagliate e cucite con mano paziente e precisa. C'è scritto anche una volta cuore e c'è un errore di stampa, ma è un errore non tuo. Un errore di qualcun altro. Non tuo.

dimmi
tu non hai paura della morte
quando ti lavi i denti


E mi parli di me con parole tue, di quando mi sembra di cadere nell'abisso e accarezzo la sedia e i vestiti e poi mi trovo su un'altra stella ma ho ancora la mia sedia. Mi parli delle mie notti e dei miei amori inconfessabili, di starnutire e fumare una sigaretta e piangere di gioia. Ora sento i rumori veri, i rumori della realtà. I loro passi, le campane lontane, le rondini che non sanno nulla di noi, i vostri respiri, la sua voce acutissima. E non me l'aspettavo, davvero, non me l'aspettavo.

e io che corro corro corro

I pomeriggi accadono, come accadono gli incidenti, le primavere e le rivoluzioni. E noi che vorremmo fare qualcosa e invece aspettiamo e aspettiamo e non ammetteremo mai che forse non ci crediamo più. Questo letto che cigola non lo sopporto più, questo soffitto bianchissimo che diventa grigio mentre fuori diventa buio. Le macchine della polizia una dietro l'altra con le sirene e i lampeggianti e poi anche un camioncino e un poliziotto in borghese.

fa' sì che non pianga mai
fa' sì che non muoia mai
fa' sì che si diffonda il tuo sorriso


E dove siete tutti, che dalla finestra non vedo altro che il tetto di un autobus che si allontana e non ho ancora capito se è l'ora dell'alba o del tramonto, sento solo il cielo arancione e le guance schiacciate contro le pareti fredde e le mani piegate dietro la schiena e penso solo -non mi farò spezzare tutte le ossa una ad una. Ma se non fosse per questi scricchiolii, ora ci sarebbe un bellissimo silenzio.



poichè a nessuno viene in mente
che fumare una sigaretta
starnutire sorridere
o piangere in mezzo ai fiori
sia soltanto a causa della gioia




corsivo di J.E.Eielson

sabato 18 febbraio 2012

Racconto triste di due ragazzi belli alle sette di un mattino

Il letto non era esattamente pulito, la camera era carica di un odore non suo, dalla finestra filtrava una luce grigia, non era freddo, né caldo. Lui era da qualche parte, cioè precisamente lì, accanto a lei, con i calzini di spugna blu scuri bucati sul
calcagno, con i piedi sudati, con la bocca aperta, rannicchiato su un fianco. Non ci si affaccia alla finestra alle sette del mattino se si è nella stanza di un albergo a una stella nella periferia di una città brutta vuota e lontana. Lontana da dove? Non importa. I paesaggi a volte sono desolati. Lei sì era alzata da quel letto stando attenta a non farlo cigolare, ma invano. Aveva provato a respirare ma non c’era aria, aveva sete ma non c’era acqua, cercava nello specchio una qualsiasi ragione valida per trovarsi lì, ma doveva ammettere che non c’era nient’altro che la inutile costante voglia di evadere, o forse solo provare a esistere, essere un cazzo di qualcuno, anche per finta. Lui dormiva, sicuramente senza intenzione di svegliarsi perché solo lei, solo lei poteva aver voglia di starsene lì, con le mani e la faccia schiacciate contro un vetro freddo, a guardare la nebbia, le fabbriche, la propaganda elettorale, l’unica macchina parcheggiata e i cespugli tagliati forse l’anno scorso nel cortile triste di quell’albergo triste di quella periferia triste di quella città triste.
Una ragazza bella e un ragazzo bello dovrebbero trovarsi da qualche altra parte, alle sette e cinque di un lunedì di una primavera incostante, troppo fredda e bugiarda. Non dovrebbero esistere coperte marroncine e lenzuola bianco sporco non dovrebbero esistere tendine giallo ocra fatte all’uncinetto e scrivanie di legno finto, non dovrebbero esistere quadretti con le cornici di plastica scura che raffigurano frutta morta e uccelli morti e famiglie morte. Non dovrebbero esistere piastrelle del bagno verdoline e saponettine dal profumo nauseante e asciugamani lisi e rubinetti incrostati di calcare e ciambelle del cesso che puzzano di piscio e disinfettante.
Moriva di sete. Quella ragazza bella aveva le labbra secche e l’alito cattivo, i capelli puliti ma spettinati, gli occhi contornati del nero sfatto un po’ colato dell’eyeliner della sera prima lasciato lì come a volte si lasciano alle pareti le foto di qualcuno che non si ama più, solo perché toglierle fa fatica. Ora se qualcuno fosse stato lì l’avrebbe vista fissare il lavandino con l’aria schifata e indecisa. Più schifata che indecisa. L’acqua del rubinetto odorava di qualcosa che stava marcendo, di fosso, di fiume inquinato, di mare in putrefazione. La sua pelle conservava ancora l’odore della saliva di qualcun altro, ma non poteva ancora sentirla familiare. Le persone un giorno non si conoscono, il giorno dopo credono di conoscersi –perché si sono rivelate il segreto che si tenevano in serbo per le grandi occasioni, ma non si conoscono affatto. E forse non mangeranno mai dallo stesso piatto e non faranno mai una passeggiata e non ascolteranno musica dalla stessa autoradio e lui non presterà mai a lei il suo spazzolino e lei non gli regalerà mai un alberello con dei mandarini acerbi da piantare in un cazzo di giardinetto da qualche parte lontano da lì. Non sa neppure quando è il suo compleanno. Ma questo non c’entra nulla. In ogni caso non bevve, non si lavò e non tornò a letto.

lunedì 2 gennaio 2012

lunedì 24 ottobre 2011

Mi stanco.



Ad occhi chiusi mi metto in ascolto. Sento rumore di acqua e di una macchina che passa. Potrei sentire solo acqua, e invece macchina, motore, frizione, freno. Sento stormire di foglie d’acacia e tralicci della corrente che friggono. Sento calore di coperta elettrica bramando calore di corpo umano. Non so immaginare la temperatura del suo corpo, penso a un corpo freddo di donna -penso al corpo freddo, ruvido di mia madre.


Non ho assaggiato latte materno, bianco, caldo, latte denso da seno, da corpo, latte dolce, istinto di cucciolo animale. Sono fatta di latte in polvere e liofilizzato, omogeneizzato, sono un organismo geneticamente mortificato. Mangio pane finto, mangio grassi idrogenati, correttori di acidità, esaltatori di sapidità, coloranti, conservanti e addensanti. Il solo fuoco che conosco è blu e non brucia, non devasta, non avanza. Sniffo gas e benzina e cherosene, diossido e monossido di carbonio, verso acetone su unghie colorate e mastico qualcosa che non posso buttare giù. Ingoio solo saliva aspra, amara, aromatizzata e respiro solo aria pesante, nera, sudicia. Non lavo i panni nel fiume, non cammino a piedi scalzi, non vado a piedi,

   mi stanco

non conosco i nomi delle erbe curative, mangio fragole d’inverno e soufflè al cioccolato fuso in 3 minuti e 50 secondi nel forno a microonde

        mi stanco mi stanco mi stanco.

Non ho visto agnelli insanguinati uscire dall’utero di pecore di lana sporca, non ho sentito l’odore del sudore delle donne aggrovigliolate nelle vigne -ma ho sentito di donne stuprate da stilisti omosessuali e ho visto le loro ossa su copertine -le loro ossa.

Vorrei bere acqua dalle mani di mio nonno e imparare da lui a dipingere e imparare il nome dei colori e imparare il nome di tutti gli alberi e dei pesci e imparare il nome di tutte le cose e sentire l’odore di tutte le cose.

il sole sorge e tramonta
e a volte riscalda
ma potrebbe anche non riscaldare
e dalle persiane al mattino entra un raggio
ma potrebbe
anche non entrare
il sole sorge
tramonta
ma potrebbe anche non sorgere.





.

venerdì 7 ottobre 2011

Se mi aspetti

Ci risiamo, l'aria fresca della mattina presto, restare ancora una mezz'ora a letto, l'acqua verdastra di questo fiume che ci scorre a pochi metri, l'aspettarti, aspettare che apri il cancello, che entri con i tuoi sacchettini di cialde e gelato al pistacchio, con le tue mani ruvide, con i tuoi occhi e tutto il resto -come se fossi un regalo. Aspettare che torni il sole tiepido dell'ora di pranzo sul mare, che torni la domenica mattina, i mesi freddi dell'inverno, i mesi che forse ci sei ma forse parti ma forse potremmo anche partire insieme

se mi aspetti.

giovedì 1 settembre 2011

E' ancora qui

Credo sia una specie di reazione chimica questa cosa che preme arriva comprime allarga tutto e apre e poi va nella gola e ci resta, tipo un nodo. Questa cosa che non ricordavo più. E tutto il corpo lo sa, tutto il corpo ha già deciso. Questa cosa è simile a una pausa tra due dolori, è come un sollievo ma ancora più prezioso. E' più di un regalo.

Ci siamo proprio noi. Ci sei tu e ci sono io e non ci possiamo ancora guardare negli occhi. Guardo la tua figura allontanarsi nell'esatto momento in cui non posso dire se sia ancora notte o già mattina, il mio corpo a pochi metri dal tuo, i nostri corpi e solo l'odore di qualcos'altro.

Io volevo essere proprio qui.
Io volevo essere proprio qui.

Ci riserviamo il diritto di sbagliare e mi commuove il tuo tentativo di non essere frainteso. La tua disarmante sincerità, i tuoi occhi che guardano in alto a destra mentre mi dici che le parole non servono. E c'è come una sorta di nostalgia anticipata, questo groppo alla gola che mi ripete è ancora qui è ancora qui. Eri in piedi davanti a me con la faccia bellissima e i capelli ancora bagnati. Ti ho promesso di non piangere e quella specie di regalo che mi hai fatto ho promesso di non perderlo mai.

lunedì 29 agosto 2011

Ma anche se partissi

Non chiedere mai nulla
che sia meno della gioia

Mariangela Gualtieri



Le mani tue che sono le mani di chi le mani le usa
le mani tue che non profumano quasi mai
fatti avanti, te che sai fare il pane
te che ti svegli sempre prima dell'alba
noi che guardiamo il sole sorgere sempre un po' più a sud
con i piedi nell'acqua tiepida
e tutti i nostri tramonti
le dita che si infilano nelle pance dei pesci
le dita che annodano e spezzano
annodano e spezzano
continuamente
i verbi all'indicativo futuro
e non avere il coraggio di chiedere
le strade di marina che sono le stesse di cinquant'anni fa
le nostre biciclette legate
e dopo questa estate settembre e poi ottobre e poi un altro inverno
e io che non so se sopravviverò
la pelle tua che non potrà mai essere una corazza
questa attesa lenta e impossibile e necessaria
questa lentezza assoluta
questo non chiedere nulla non dire nulla
questa mancanza di quasi tutto
i nostri gesti misuratissimi, gli articoli di giornale
le decisioni prese al tavolino di un bar
verso le nove di mattina
non è detto che parta
non è detto che parta

ma anche se partissi
lo sapevo che tutto il resto era un regalo
e non ho mai chiesto nulla
che fosse meno della gioia.

lunedì 20 giugno 2011

Corpi estranei

Ora ti parlo dello sguardo della Madonna che mi guardava dall'altro lato del tavolo mentre recitavo in cuore il signore è con te tu sei benedetta tra le donne e benedetto il frutto del seno tuo -era severo come il tono di voce di Pertini quando faceva l'appello ai giovani. Era pieno di comprensione e compassione. Era il contrario di assente, il contrario di vuoto. (-non avere paura è come dire: -non avere sete -non tremare di freddo -non ci pensare).

Appoggiavi con cura il tuo anello sul comodino. Appoggiavamo con cura i vestiti sulla seggiola. E le scarpe non le lasciavamo mai in fondo al letto. Le mettevamo in una cassa del latte di plastica gialla. Il divano era rosso, un rosso ciliegia scuro e non era un vero divano, era un futon dell'Ikea. Vorresti tutti i particolari, tutti i particolari ma se anche ci provassi non potrei descriverti il colore di tutte quelle piastrelline che c'erano nel bagno perchè erano di così tanti celesti diversi che non te li saprei proprio spiegare, davvero. E quando di notte ci affacciavamo alla finestra, ma quale finestra non saprei dirtelo, avevamo sempre gli occhi grandi e le mani fredde. Fissavamo i lampioni di Viale Europa, di Rue Saint Jacques, le luci della Solvay, il campanile della chiesa, il fiume, l'insegna dell'impresa funebre dietro le inferriate.

Ma poi è arrivata anche questa primavera, la nostra felicità di stasera malgrado tutti i governi e il debito pubblico della Grecia, i tuoi occhi non molto grandi, le tue parole cortesi a prescindere dai molti chilometri di autostrada. Parecchi litri di benzina per portare le tue parole a pochi metri dal mare. Il regalo che sto per farti si trova ancora molto lontano da qui, i virus viaggiano attraverso i nostri gesti d'amore e ci stiamo già organizzando per disinfettare tutto. Qualche volta non torni, e io resto in cucina a guardare il rubinetto dell'acquaio e a pensare alle sere estive del 1989 o giù di lì. Qualche volta invece ritorni e i tuoi passi disegnano in giardino delle specie di costellazioni, allora io posso alzarmi dalla sedia e andare in un'altra stanza e tutto cambia in un attimo, la chiave giusta che gira nella serratura e quasi tutti i rumori che diventano familiari. Le nostre facce. Il mio corpo fermo in piedi davanti al tuo. I nostri corpi immobili. I nostri corpi estranei.

martedì 22 marzo 2011

Dalle mie parti è sempre inverno

Ci è toccato di vivere questo tempo, di camminare questi marciapiedi, abitare queste stanze dalle pareti bianchissime. Ci è toccato di stare seduti su sedie di legno duro, di scrivere senza inchiostro, di seguire la catastrofe in diretta dalla poltrona del salotto e chissà perchè viaggiano e dove vanno quelli che viaggiano di notte. Noi preferiamo sentirli passare i treni, attraversare i binari a corsa pensando a quella scena di un film dove a lei rimane un tacco incastrato nelle rotaie. E ora ci tocca di vedere questi corpi e queste case, queste distese di terra secca e queste bandiere, questi cieli illuminati sempre (rivogliamo il buio). Ci è toccato di essere noi gli assassini, di usare gli alberi e tutte le altre vite per scrivere due righe d'amore, per lasciare le multe sotto i tergicristallo, per pulirsi gli angoli della bocca, le mani, il culo. Ci è toccato di assistere ai massacri e al Festival di Sanremo. E ora ci tocca di imparare a camminare, andare a piedi, avere freddo. Ci tocca di prendere in mano le zappe e i secchi e l'annaffiatoio. Ci tocca di sporcarsi le mani, le scarpe. Ci tocca di infilare le unghie nella terra.


Ora la notte non dormo e penso alle tue ossa, all'odore di quella poca carne che c'era rimasta appiccicata e all'odore che è rimasto in macchina mia. -Non lo sapevo che le ossa fossero rifiuti speciali. Ora la notte penso all'equinozio di primavera, al giorno che dura un minuto più della notte e poi un'ora e poi l'estate e poi le foglie morte un'altra volta, che tanto dalle mie parti è sempre inverno. La notte non dormo più e penso alle parole che aprono le voragini nei cuori e non è giusto, non è giusto che qualcosa si possa dire così bene, con quell'essere così composti e così micidiali. Così esatti. La notte ormai non è più per dormire, è per dire agli spigoli la fatica e la pazienza. Per riflettere sul da farsi. Per ridere piano. Per fare la lista della spesa.





Allora tu sei la mia lezione più grande
l'insegnamento supremo.
Esiste solo l'uno, solo l'uno esiste
l'uno solamente, senza il due.

Mariangela Gualtieri

mercoledì 2 marzo 2011

Frutti

Con i piedi nella terra e le mani verso il cielo per illuderci di essere piante e non dover pagare l’imu, avere la partita iva, il telepass, la disoccupazione a requisiti ridotti. Con la faccia all’insù e la bocca aperta per qualche goccia di pioggia, qualche raggio di sole. La terra è fredda, sotto. E ruvida. E umida. Ma a volte anche dura e secca, come i marciapiedi. Il cielo ci guarda sempre, di giorno e poi di notte e poi di giorno e qualche volta le stelle non si vedono, ma ci sono di sicuro. Le stagioni prima o poi arrivano tutte, una alla volta: dopo l'inverno sempre la primavera. E a chi mi chiede un’albicocca io rispondo: -non posso dartela, sono un mandorlo.

martedì 15 febbraio 2011

Tutto scorre.

Invoco il tempo come se fosse un dio.
Invoco il tempo di passare veloce. Che passi in fretta, dico. Che passi. Che cancelli, che ricucia, che ricolmi. Che accorci le distanze, che porti dei doni, che sveli i segreti. Che passi, che passi in fretta. Non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume, diceva Eraclito. Panta rei. Tutto scorre.

Tutto scorre, tranne la notte.

mercoledì 26 gennaio 2011

Pasolini voleva morire di domenica

Compriamo il giornale e chiudiamo un attimo gli occhi prima di guardare la prima pagina. Neanche oggi, no. Non è il gran giorno. Aspettiamo questo gran giorno cercando di immaginarcelo nei minimi dettagli ma non ci viene in mente nulla di preciso. Non abbiamo un'immagine di come ci sveglieremo la mattina del gran giorno. Non sappiamo immaginarci il portone dal quale usciremo per andare a fare qualcosa di normale tipo colazione o la spesa. Come saremo vestiti, il gran giorno? Saremo insieme? O sarò da sola davanti all'edicola di quella piazza che io credevo fosse Piazza Viesseux, ma che forse si chiama in qualche altro modo? Forse saremo seduti in un bar. Una voce di donna interromperà le trasmissioni televisive per dire che è oggi. Nel bel mezzo di un programma inutile in cui un conduttore inutile sta parlando di cose inutili con quella voce che ti arriva da destra mentre mangi un toast e non ci fai nemmeno caso. Il gran giorno potrebbe sorprenderci al circolino, verso le due del pomeriggio. Oppure in macchina, mentre ascoltiamo Radio Radicale. All'improvviso irrompe questa voce, e questa voce ci dice che è oggi. Io vorrei essere vestita bene in quel momento, vorrei avere un bel bracciale o un paio d'orecchini d'argento. Poi vorrei avere i soldi nel cellulare perchè sentirei il bisogno di chiamare subito qualcuno. Potrebbe essere un martedì, un giovedì, una domenica. (Pasolini voleva morire di domenica).

Quando abbiamo preso atto che no, non era oggi, la nostra giornata può prendere il contorno banale di sempre. Possiamo tranquillamente incamminarci verso l'uscita. Siamo gentilmente pregati di avviarci verso l'uscita. Siamo praticamente obbligati ad avviarci verso l'uscita. Senza neanche stare a domandarci se siamo visitatori, passeggeri o gentili clienti. E apriranno altri centri commerciali, altri stabilimenti balneari, altre discariche. Costruiranno delle ringhierine di ferro per ciscoscrivere l'avanzata delle aiuole. E chiuderanno altre librerie, perchè i libri non li legge più nessuno. Chiuderanno altri fiorai, perchè i fiori non servono più a nessuno. Sono già chiusi quasi tutti i negozi di dischi e chiuderanno anche i kebabbari, prima o poi. Gli alimentari dei peruviani e dei cinesi, che non si capisce se è per via di una specie di complotto, ma chiudono sempre per primi. Le chiese e le galere invece non chiuderanno mai. I benzinai, i parcheggi sotterranei, i centri di permanenza temporanea. Gli uffici anagrafe, gli uffici di collocamento, gli uffici. Continueranno a farci mangiare quello che vogliono, uccidendoci piano e di una morte che hanno deciso loro. Sarebbe bello poterci sputare sopra a questo surrogato di felicità, ma è l'unica parvenza di vita che ci resta e mi dici che fuori da questa finestra sembra che il tempo non passi perchè non si sentono le campane. Suonano ripetutamente il campanello per venderci delle enciclopedie-obbligarci a fare beneficenza-mettere nelle cassette della posta i depliant con le offerte dell'Esselunga mentre un neolaureato psicologo del lavoro sta cercando di testare un gingle pubblicitario su di noi.

Mi hai chiesto: qual'è stato il dolore più grande della tua vita? (Non è che me l'hai chiesto di tua spontanea volontà, è che ci stavamo facendo delle domande).

Il dolore più grande della tua vita:

niente di meno poetico. Un dente cariato. Forse il setto nasale rotto sanguinante sul marciapiede con le macchine che passano. Le ruote che rallentano e non si fermano. Il marciapiede che diventa rosso e la voglia di essere a casa, a letto, nella vasca, in cucina, con una tazza di camomilla (anche solubile) o un digestivo di qualsiasi genere. Come quando cercavo di mettere in valigia tutte le cose possibili senza che tu cercassi di fermarmi. Come quando camminavo e sapevo che ormai non mi avresti più fermato e che ormai non saresti più venuto a cercarmi e mi stava bene così.

Sapevo che esisteva e che prima o poi avrebbe dovuto avere un nome. Come tutte le cose di questo mondo. Sapevo anche che poteva succedere così, en passant, tra una frase banale e una galleria. Ma ho dovuto lo stesso sforzarmi di non piangere e di fare la faccia indifferente (anche se tanto non mi vede, mi dicevo, perchè siamo al telefono ed è anche andata via la linea). Avrei voluto mettere su quel sedile un mazzo di fiori come quelli che mettono ai bordi delle strade dove muore la gente. Avrei voluto cantare un canto funebre. Un treno, un finestrino senza paesaggio, gente sovrappensiero. Un cuore può fermarsi anche con questa nonchalance.

martedì 18 gennaio 2011

All'improvviso piangere.


Ci sono delle piantine che muoiono prima ancora di nascere, delle piantine che muoiono piccole e delle piantine che crescono e diventano delle piante medie e poi delle piante grandi e a quel punto una notte d'inverno non può far loro molto del male. La nostra piantina sembra della seconda specie, di quelle che muoiono piccole. Abbastanza indifesa da non poter quasi nulla contro la distrazione e la siccità.
Morendo mi ha confessato il suo ultimo desiderio, era un po' di caffè con lo zucchero di canna. Gliel'ho dato.
Non succede spesso che una piantina morta rerusciti, anzi direi che non succede mai. Però ho pensato che alla nostra potrebbe capitare. Magari ha fatto solo finta di morire per attirare un po' l'attenzione. Ora potremmo voltarci, piangere un po' per dimostrare che in fondo ci importava davvero di lei. E quando ci volteremo di nuovo lei tirerà fuori una foglia, poi un petalo, così, alla velocità delle cose normali, come infilarsi i pantaloni o masticare un kebab.

In luoghi molto lontani da qui, cioè tipo a 2000 euro di aereo, un milione di alberi stanno esprimendo i loro ultimi desideri ma nessuno li sente perchè il rumore delle motoseghe è troppo forte. Un miliardo di foglie che ora sono verdi e poi gialle e poi marroni e che poi saranno quaderni a righe, a quadretti, a pentagrammi, armadietti per i medicinali in qualche farmacia, seggiole di qualche ministro dell'istruzione, fotocopie, mensole, soppalchi e altre cose di cui non possiamo fare a meno.

Nel frattempo succedono un sacco di altre cose che apparentemente non c'entrano nulla. Eccolo, il suo orecchino preferito. Mentre lo prendeva da terra e glielo porgeva con la mano che era capace anche di gesti piccoli e misurati, anche di carezze e cure, mentre la sua bocca prendeva la forma di una specie di sorriso bellissimo, mentre il mondo e tutti i cuori e tutti gli orologi si fermavano. Suo. Le aveva parlato in terza persona, aveva detto così. Eccolo. Il suo orecchino preferito. E poi glielo aveva avvicinato all'orecchio. Nessuno si ricorderebbe una cosa del genere. Mentre tornavamo dal mare ho guardato fuori dal finestrino (il sole credo fosse già tramontato) e ho pensato agli occhi dei partigiani, cioè, ho pensato ai partigiani che non ci vedevano bene e che per mettere a fuoco dovevano strizzare gli occhi, specialmente a quest'ora che non è ancora buio ma quasi. Mi sono immaginata le donne di questi partigiani che quando li avrebbero rivisti sarebbero state felicissime anche se avevano le rughe d'espressione. Le rughe della disperazione. Le rughe degli occhi strinti per mettere a fuoco i boschi alle cinque e mezzo dei pomeriggi d'inverno. Un giorno camminavo con il solo desiderio di passare inosservata (e difatti nessuno mi ha osservato), camminavo con lo sguardo ad un'altezza media. Non così bassa da sembrare triste e abbattuta come chi guarda il marciapiede o le proprie scarpe ma nemmeno così alta da sembrare una donna solare e sicura di sé, come una giovane avvocatessa o qualcosa del genere. E nemmeno così alta da poter incrociare lo sguardo di qualcuno di cui innamorarmi all'istante. Potevo vedere abbastanza bene le mani della gente, le siepi, qualche campanello, la ringhiera di Ponte alle Grazie, gli sportelli delle macchine, il tuo giacchetto. Il tuo giacchetto e il suo. I vostri giacchetti, i vostri giacchetti che si scambiavano gesti cortesi. I vostri giacchetti che conversavano amabilmente. Che probabilmente di lì a poco avrebbero camminato insieme verso la macchina e poi avrebbero aperto lo sportello e ci sarebbero saliti e poi sarebbero riscesi e poi sarebbero stati per un po' appoggiati da qualche parte e poi un giacchetto sarebbe andato via magari con l'autobus ma il giorno dopo o due giorni dopo o chissà quanti giorni dopo si sarebbero rivisti e magari avrebbero ballato e fatto la spesa insieme e altre cose insignificanti.

Suo. Il suo orecchino preferito. Sono sempre estremamente banali le cose che fanno piangere all'improvviso.

venerdì 26 novembre 2010

DESIGNATED RIOT AREA


"Si conobbero. Lui conobbe 
lei e se stesso, perche' in verita' non s'era mai saputo. E lei conobbe 
lui e se stessa, perche' pur essendosi saputa sempre, mai s'era potuta riconoscere cosi'." Italo Calvino


C’era una volta, in un film, una ragazza che diceva che avrebbe voluto fare un buco nel muro perchè dall’altra parte c’era qualcuno che stava morendo, dall’altra parte del muro. C’era qualcuno. Vorrei ora fare un buco in questo muro anche io. Vorrei fare un buco in questo muro e vedere che no, non stai morendo. Vorrei vivere così, in una casa con le pareti bucate per poterti sempre vedere e poi sorridere nell'accorgermi ogni minuto che sei ancora vivo. Rinnovare la gioia di non essere morti ogni volta che ci incrociamo. E ci sono delle vie che ho percorso a testa bassa perchè pioveva e non avevo l’ombrello, delle vie sconosciute di una città non troppo lontana ma non te lo racconterò mai. C’erano delle scritte luminose, c’era una storia che si poteva leggere solo correndo ma io ero troppo stanca per correre e allora l’abbiamo letta camminando e quasi sicuramente c’è sfuggito il senso di qualcosa. Camminare e non riconoscere i marciapiedi significa aver superato un confine. Quello che è stato tuo e che ora è mio e che forse un giorno non tanto lontano, tipo a primavera, sarà nostro. Le pareti di questa stanza forse non le avresti riconosciute, ci sono dei buchi di trapano, ci sono delle zanzare spiaccicate sopra, volevo metterci un quadro ma non ho avuto tempo. Quante persone ci avranno abitato prima di me, prima di te. E mentre siamo qui a ragionare di pareti stanno accadendo delle piccole rivoluzioni, ci verranno a chiamare e ci troveranno impreparati, correremo fuori da questa casa mentre tutti correranno fuori da tutte le case e saremo tutti ma proprio tutti insieme, ci troveremo in aree designate alla rivolta e circoscritte da una linea di vernice fucsia. Non ti dimenticare la bomboletta, la sciarpa da tenersi sul viso, lo zaino con le chiavi della bici attaccate. Non ti dimenticare la divisa. Che si veda che siamo disperati. Che si veda che siamo usciti di casa, che sono venuti a prenderci, che ci hanno tirato fuori, che sappiamo cosa facciamo e cosa vogliamo ma soprattutto chi siamo. Diamo almeno un senso a questo nostro camminare di fretta, diamogli una meta. Diamoci almeno l’opportunità di dire che ci abbiamo provato. Che sì, ci abbiamo provato davvero. Che non si dica che non ci abbiamo provato.



(acquarello di Michele Bernardi, dal video "Quando tornerai dall'estero" -Le Luci della Centrale Elettrica-)

lunedì 15 novembre 2010

Vieni via con me


e tutti insieme dicono, Hai superato la prova, era solo una prova, sai, tutto quanto, stavamo solo scherzando, la vita vera è molto meglio di così (Miranda July, Tu più di chiunque altro)


Vieni via con me è l'unica cosa che mi viene da dire in questo momento, l'unica parvenza di attesa sensata, l'unica proposta.

E domani posteremo su Facebook i video delle nostre canzoni preferite, dedicandocele in segreto. Ci confonderemo le idee ancora per molto. Porteremo il curriculum a qualche pizzeria e ci prometteremo di non lasciare nulla di intentato, ma intanto siamo già lontanissimi e presto accenderai il caminetto per riscaldare le spalle, le braccia, la nuca, la schiena di qualcuno che non vorrò conoscere e ci diremo piano, in gran segreto, che non si poteva far altro che questo. Far, diremo far senza la e finale e sul momento non ci farò caso ma quando tornerò a casa rimpiangerò quella e non detta e magari ti manderò un sms con scritto solo e.

Occuperemo i nostri pomeriggi sfogliando le offerte di lavoro mentre gli operai occuperanno le fabbriche e gli studenti le scuole e i cassieri i supermercati. Tutti che occupano tutto. Sarebbe così bello. Sarebbe bello anche tornare a dare del voi, a ricercare qualche forma di cortesia misurata, di candida ipocrisia. Ci vorrebbero le camicie da notte di cotone pesante, l'acqua di rose, i grammofoni. Bisognerebbe riscoprire il pudore, scrivere a mano, andare in bicicletta. Ballare dei lenti. Scoprire delle cose nuove, anche. Tipo i glicini, le bacche di ginepro. Così potremmo restare innamorati, senza dirselo mai. Intanto cerchiamo parcheggio il più possibile vicino a casa, gli ausiliari del traffico ci faranno la multa e non ci resterà altro che pagarla.

Non verrai via con me, non oggi almeno. E domani neanche, domani troveremo delle scuse diverse, saremo ancora più confusi e ancora più lontani, penseremo alle capitali di altre nazioni come a rifugi antiatomici e faremo progetti dettagliati sui nostri diversi futuri, le strade che ora si separano, gli oggetti che ci dimenticheremo di riprendere e tutte le parole che ci siamo dimenticati di appuntare. Ci renderemo conto di alcune cose banali come il dover prendere le chiavi prima di uscire. La necessità di mettere i fiori in un vaso più grande. Il rumore che facciamo entrando in casa. L'importanza che diamo alle promesse.

martedì 9 novembre 2010

Come essere svegli



Ci piaceva aprire i libri a caso e dare importanza alle parole ma siccome siamo soli -forse perché piove- faccio finta che sia uguale. Che le parole siano ancora necessarie. Che possiamo ancora inventare una maniera per non soccombere. Abitare vicino alle stazioni fa diventare nostalgici, credevo che avessimo ancora qualcosa da dirci invece ora preferiamo morire davanti alla soglia della portafinestra, ché dagli infissi vecchi entra il freddo e sappiamo che tanto congeleremo presto. Quando ci guardiamo da lontano cerchiamo una scusa per avvicinarci ma non ti posso chiedere l'accendino perché sai che non fumo.

La pelle in certi casi non serve a niente, non ripara dal freddo, non protegge dalle sentenze. Anzi. La pelle complica le cose, odora di fatica e racconta di tutte le cattive vicissitudini, di tutte le lacrime che sono evaporate dalle lenzuola e dagli asciugamani e dai fazzoletti di stoffa di un'altra epoca e dalle maniche delle felpe e anche dai sedili della macchina. E racconta di quando avevamo dentro così tanta rabbia che potevamo sradicare tutti gli alberi del bosco e così tanta tristezza che potevamo scavare delle buche fonde per seppellirceli dentro. Mi hai portato due buste colorate, delle lettere scritte a mano. Un dono innocente e spoglio come inchiostro e colla e pezzi di giornale. Forse la vergogna è ancora un sentimento umano. Ci siamo pensati di sicuro nello stesso istante e nello stesso istante ci siamo chiesti cos'è questo muro che ci chiude alla vista dei binari e delle scie chimiche e delle nuvole che non sappiamo più di che sostanza sono fatte e ci siamo chiesti, nello stesso istante, una spiegazione per questo disinnesco, per questo sonno, per questa resa. Senza appoggiare i piedi per terra ci siamo alzati dal letto e ci è sembrato che il pavimento non ci potesse sostenere, allora forse era venuto il momento di accorgersi che erano finite le sigarette.

Era finita la carta di giornale, l'inchiostro, le parole, che anche volendo non si sapeva più dove mettere le virgole. La grammatica è importante. Come accostare i colori. Come le luci in una stanza. Come essere svegli.

sabato 30 ottobre 2010

Prezzi modici



Bicchieri di vino rosso, birre piccole, birre medie, crostini con patè di olive, gambe accavallate, stivali di camoscio, scarpe consumate, facce ancora abbronzate, facce già bianche, un posacenere, i tuoi capelli bruciati dal sole. Cinque euro accartocciati nella tasca destra dei pantaloni. Cinque euro costano stasera questi nostri sorrisi reciproci, familiari, conosciuti. Cinque euro a testa per appoggiare le mani su un tavolino di formica e guardarci negli occhi senza parlare, vestiti come ci si veste un banale martedì sera d'ottobre, con il libeccio che cala e la strada ancora bagnata della pioggia di ieri. Nessun odore, nessunissimo odore. Il buio dura veramente poco, il silenzio non si percepisce quasi. Sette euro e mezzo tra l'indice e il pollice, un pezzo da cinque, una moneta da due e una da cinquanta. Sette euro e mezzo per stare due ore seduti accanto, gomito a gomito, senza il coraggio di cambiare posizione. Ogni tanto sospirare. Quattro euro e venti per un pacchetto di Lucky Strike. Dodici per un pieno di metano. Tre e sessanta di autostrada.

 -a me sono avanzati ottanta centesimi.
-a me due euro e trenta.
-ce la facciamo a comprare una moretti da 66 al bar della stazione.

I nostri vuoti incolmabili cerchiamo di riempirli così, a prezzi modici.