
Ci sono delle piantine che muoiono prima ancora di nascere, delle piantine che muoiono piccole e delle piantine che crescono e diventano delle piante medie e poi delle piante grandi e a quel punto una notte d'inverno non può far loro molto del male. La nostra piantina sembra della seconda specie, di quelle che muoiono piccole. Abbastanza indifesa da non poter quasi nulla contro la distrazione e la siccità.
Morendo mi ha confessato il suo ultimo desiderio, era un po' di caffè con lo zucchero di canna. Gliel'ho dato.
Non succede spesso che una piantina morta rerusciti, anzi direi che non succede mai. Però ho pensato che alla nostra potrebbe capitare. Magari ha fatto solo finta di morire per attirare un po' l'attenzione. Ora potremmo voltarci, piangere un po' per dimostrare che in fondo ci importava davvero di lei. E quando ci volteremo di nuovo lei tirerà fuori una foglia, poi un petalo, così, alla velocità delle cose normali, come infilarsi i pantaloni o masticare un kebab.
In luoghi molto lontani da qui, cioè tipo a 2000 euro di aereo, un milione di alberi stanno esprimendo i loro ultimi desideri ma nessuno li sente perchè il rumore delle motoseghe è troppo forte. Un miliardo di foglie che ora sono verdi e poi gialle e poi marroni e che poi saranno quaderni a righe, a quadretti, a pentagrammi, armadietti per i medicinali in qualche farmacia, seggiole di qualche ministro dell'istruzione, fotocopie, mensole, soppalchi e altre cose di cui non possiamo fare a meno.
Nel frattempo succedono un sacco di altre cose che apparentemente non c'entrano nulla. Eccolo, il suo orecchino preferito. Mentre lo prendeva da terra e glielo porgeva con la mano che era capace anche di gesti piccoli e misurati, anche di carezze e cure, mentre la sua bocca prendeva la forma di una specie di sorriso bellissimo, mentre il mondo e tutti i cuori e tutti gli orologi si fermavano. Suo. Le aveva parlato in terza persona, aveva detto così. Eccolo. Il suo orecchino preferito. E poi glielo aveva avvicinato all'orecchio. Nessuno si ricorderebbe una cosa del genere. Mentre tornavamo dal mare ho guardato fuori dal finestrino (il sole credo fosse già tramontato) e ho pensato agli occhi dei partigiani, cioè, ho pensato ai partigiani che non ci vedevano bene e che per mettere a fuoco dovevano strizzare gli occhi, specialmente a quest'ora che non è ancora buio ma quasi. Mi sono immaginata le donne di questi partigiani che quando li avrebbero rivisti sarebbero state felicissime anche se avevano le rughe d'espressione. Le rughe della disperazione. Le rughe degli occhi strinti per mettere a fuoco i boschi alle cinque e mezzo dei pomeriggi d'inverno. Un giorno camminavo con il solo desiderio di passare inosservata (e difatti nessuno mi ha osservato), camminavo con lo sguardo ad un'altezza media. Non così bassa da sembrare triste e abbattuta come chi guarda il marciapiede o le proprie scarpe ma nemmeno così alta da sembrare una donna solare e sicura di sé, come una giovane avvocatessa o qualcosa del genere. E nemmeno così alta da poter incrociare lo sguardo di qualcuno di cui innamorarmi all'istante. Potevo vedere abbastanza bene le mani della gente, le siepi, qualche campanello, la ringhiera di Ponte alle Grazie, gli sportelli delle macchine, il tuo giacchetto. Il tuo giacchetto e il suo. I vostri giacchetti, i vostri giacchetti che si scambiavano gesti cortesi. I vostri giacchetti che conversavano amabilmente. Che probabilmente di lì a poco avrebbero camminato insieme verso la macchina e poi avrebbero aperto lo sportello e ci sarebbero saliti e poi sarebbero riscesi e poi sarebbero stati per un po' appoggiati da qualche parte e poi un giacchetto sarebbe andato via magari con l'autobus ma il giorno dopo o due giorni dopo o chissà quanti giorni dopo si sarebbero rivisti e magari avrebbero ballato e fatto la spesa insieme e altre cose insignificanti.
Suo. Il suo orecchino preferito. Sono sempre estremamente banali le cose che fanno piangere all'improvviso.
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