lunedì 31 maggio 2010
Mamma sono gay
Il libero arbitrio è molto relativo. Se fossi un piccione non me ne starei alla stazione di Pontedera o in piazza S.Marco, se avessi le ali me ne andrei in un posto bellissimo lontano dagli autobus, dai Mc Donald e dai kebebbari. E d'altra parte, se fossi un piombinese non lavorerei alle acciaierie. Chissà perché ci sembra che gli altri abbiano sempre più opportunità di noi di essere felici. E che non le sfruttino. Io personalmente credo di aver sfruttato al peggio le mie occasioni giacché da quando ho scoperto lo streaming non ho ancora guardato neanche un film di Antonioni. Ed ho la bicicletta ma continuo ad andare in centro in autobus e non ho neppure scelto il piano tariffario più conveniente, così non posso dire frasi tipo ho i messaggi gratis oppure usa il mio che pago solo lo scatto alla risposta oppure chiamami tu così mi ricarichi. Io quando telefono spero sempre che non mi risponda nessuno, così poi vedono la chiamata e mi richiamano. Però l'intenzione c'era, insomma, almeno ho rischiato. E se mi rispondono o se mi richiamano spero comunque che la chiamata sia corta perché le radiazioni fanno male al cervello. Una delle cose più affascinanti della vita è l'illusione di poter scegliere. Scegliere un cibo sano, per esempio. Una banca etica. La benzina. L'8 per mille. Il parrucchiere di fiducia. Quest'anno va di moda il blu. In qualsiasi negozietto di abbigliamento (dal cinese a Zara passando per Miu Miu) puoi scegliere se comprarti un maglione blu oppure un giacchettino a righe bianche e blu o anche una gonnellina blu a pallini blu chiari. Ma tu ti metti la maglietta arancione dell'anno scorso con scritto mamma sono gay e ti senti libero. Libero di poter scegliere nonostante la moda. Nonostante le compagnie petrolifere. Nonostante le discriminazioni. Nonostante le videocamere a circuito chiuso e le zone a traffico limitato. Nonostante le basi militari americane, il Vaticano e Confindustria. Gaber lo diceva così: libertà è partecipazione, ma l'importante è diventato vincere, non partecipare. E il Piccolo Principe mi sta fondamentalmente sul cazzo ma lo stimo. Perché se avesse avuto 53 minuti, avrebbe camminato adagio verso una fontana.
lunedì 24 maggio 2010
Datemi un muro, così posso scappare.
Give me a wall so I can escape, c'era scritto sul muro di Berlino, ma io non avevo la macchina fotografica. E mentre tornavo da una Ferrara piena di neve e parcheggi ghiacciati verso il mare, l'aria sapeva di primavera anche se era gennaio e qualcosa mi diceva che non stavo esistendo, perché non ne avevo le prove. Nessuno ci avrebbe creduto che c'era il sole. E tu non sai neanche cosa si vede dalla finestra della camera dei miei genitori, anche se forse te ne ho parlato. E non sai neanche cosa vuol dire guardare il soffitto di camera mia alle 5 di mattina facendo finta che sia un cielo senza stelle. E non sai cosa si vede dal finestrino dell'aereo mentre atterra su Madrid, forse anche te avresti scambiato gli alberi per dei tori al pascolo o forse no perché sei troppo più intelligente di me. E come farò, pensavo, a convincerli che il paesaggio era bello se faceva schifo anche a me. Una specie di deserto ma più brutto, una distesa di terra secca di un colore senza nome. Con dei brutti cespugli e degli animali secchi e assetati qua e là. E vi volevo raccontare senza sembrare esagerata di quante cazzo di piscine si vedevano dall'alto. Quasi una per ogni casa, di tutte le forme, tutte celesti e tutte riflettevano il sole. Settantamila piscine e un fiume in secca. E il mare lontanissimo, tipo uno scherzo. Se avessi avuto la macchina fotografica ora vi facevo vedere quel caldo lì, quella mancanza di quasi tutto, quella specie di desolazione non abbastanza desolata. E vi facevo vedere il pavimento del bagno dell'asilo di Marina che me lo ricordo benissimo perché lo guardavo mentre facevo la pipì. Com'erano diversi i colori negli anni 80. E vi farei sentire l'odore del cherosene e dei cuscini del divano impregnati di fumo di Multifilter rosse (chissà perché anche le cose schifose quando diventano un ricordo lontano sembrano così belle che ti verrebbe quasi anche un po' di nostalgia). Però mi dico che basterebbe viverla la realtà. Basta con questo te la devo raccontare. Basta documentare e riprodurre. Basta ricordare. Basta condividere questa intimità nella speranza che sia universale. ... Eppure avrei voglia di farti sentire queste campane registrate di Bagno a Ripoli, che fanno la stessa musichetta di quelle di Rosignano e di tutte le campane elettroniche di questa Italia di merda, con il sottofondo delle bestemmie della badante russa del piano di sotto, del camion della spazzatura e degli uccellini che non gliene frega nulla, beati loro.
giovedì 20 maggio 2010
Motion picture soundtrack

Anche se so che mi prenderai per il culo ho fatto un cd con le stesse quindici canzoni che ascolto da non so più quanto tempo, le stesse quindici canzoni che canto in playback sulla FiPiLi mentre torno a casa dopo una settimana difficile che se non sto attenta mi dimentico di uscire a Lavoria e allora mi tocca prendere l'autostrada ma non voglio spendere 3 euro e 60. Le stesse quindici canzoni che ascolto a volume 31 mentre percorro tutte le piste ciclabili di Firenze per non sentire i rumori del mondo che mi vive intorno. Perché il mondo che mi vive intorno è troppo violento. Giacché chissà chi è il regista di questo film di fantascienza almeno la colonna sonora me la posso scegliere io, da sola. La colonna sonora dei miei dormiveglia, degli spostamenti e delle immobilità, dei pensieri d'amore, degli incontri e dei ritrovamenti, dei ritardi, delle attese, dei viaggi in ascensore, degli infiniti tentativi, delle risate, della fatica. Quando mi verrai a prendere in macchina probabilmente avrai un sacco di cose da raccontarmi ma io ti chiederò se posso mettere un cd perché anche le tue parole mi sembreranno troppo violente, perché se la realtà è una io ne voglio tante, perché sono qui ora ma potrei essere ovunque, ma è precisamente lì che voglio stare, accanto a te. Quando inizierà la prima canzone mi riderai in faccia ma continuerai a volermi bene, perché io sono così e lo sappiamo entrambi che non possiamo farci nulla. Quando inizierà la seconda canzone riderai ancora più forte e ormai già sappiamo che non ci sarà niente di nuovo, che siamo così prevedibili, che non ci conforta niente, nemmeno le parole che sappiamo a memoria, nemmeno le strade che potremmo percorrere a occhi chiusi, nemmeno gli odori che ti riconoscerei fra centomila altri esseri umani. Non ci conforta niente, nemmeno la voce di Syd Barrett, nemmeno l'assolo di chitarra di Jimmy Page, nemmeno le prime note di pianoforte di Perfect day, i sospiri di Jeff Buckley. E siamo sempre più soli, che DeAndré ci ha abbandonato, Gaber ci ha abbandonato, Rino Gaetano ci ha abbandonato e anche Giovanni Lindo Ferretti ci ha abbandonato. E siamo sempre più persi, che senza il navigatore satellitare abbiamo paura di non saper tornare a casa e siamo sempre più ridicoli: hai spento il telefono prima di andare a dormire ed ho creduto di essere morta per sempre.
lunedì 17 maggio 2010
domenica 16 maggio 2010
Il mondo
No, stanotte amore non ho più pensato a te, ho aperto gli occhi ed ero in una stanza che non riconoscevo. Ho aperto gli occhi per guardare intorno a me. Ma intorno a me non c'era nessuno ed il mondo forse non girava neppure, perché c'era un silenzio così totale, così profondo, così vuoto e perfetto che se il mondo avesse girato come sempre me ne sarei accorta, avrebbe fatto almeno un cigolio, uno scricchiolio, un fruscio. Invece era tutto immobile e buio e ovattato e se non fosse stato maggio avrei detto che fuori c'era la neve. E chissà come faceva il mondo nello spazio senza fine a stare così immobile, a non accorgersi degli amori appena nati e degli amori già finiti, a non chiedersi che farsene della gioia e del dolore della gente intorno a me. E' vero, soltanto adesso io lo guardavo, mi perdevo nel suo silenzio e non ero niente, niente accanto a lui. Io non ero niente. Accanto a lui. Non ero niente. Niente. Non è vero che il mondo non si è fermato mai un momento, stanotte si è fermato, io sono sicura che si è fermato, si è fermato per un'ora, almeno, si è fermato per tutta la notte, si è fermato per sempre. Io pensavo, la notte insegue sempre il giorno, ed il giorno verrà. Io pensavo, vieni giorno, ti prego. Vieni.
Ma il giorno
non è venuto.
Ma il giorno
non è venuto.
mercoledì 12 maggio 2010
Questo essere sempre altrove
[Facciamo domande per necessità. Rispondiamo per sopravvivere. procediamo per tentativi ed errori. abbiamo sospeso il pensiero che esista qualcosa al di fuori di noi.]
Lei.
Nell’esatto momento in cui si rese conto che sarebbe stato meglio restare se ne era già andata. Da qualche parte. Non temere, si ripeteva. Non avere paura. Puoi crederci. Anche i sedili della sua macchina saranno abbastanza comodi. Anche nella sua dispensa ci saranno delle tisane alla rosa canina, ai frutti rossi, al tiglio, alla menta. Anche nella sua libreria ci sarà qualche libro interessante. Invece no. E continuava a non capire chi dove cosa quando. E continuava a potare le siepi e a cogliere le margherite. E a comprare degli adesivi di feltro da mettere sotto le gambe delle sedie perché non facessero rumore. E continuava a fare la raccolta differenziata ma non sapeva dove mettere il sacchetto dei biscotti perché sembrava di carta, ma forse non lo era. E continuava a guardare nella cassetta della posta mentre rientrava, ma c’erano solo delle bollette e delle pubblicità. Il suo alito odorava dello stesso odore di certe mattine d’inverno, quando il sole c’è. Ma non si vede.
Lui.
A volte avrebbe voluto morire pur di non averla accanto. A volte avrebbe voluto morire e basta. A volte avrebbe voluto trovarla attraente. Pensava alle sue rughe e alle occhiaie di chi piange in attesa come della sentenza finale. Aveva più paura di notte che di giorno. Di notte più che di giorno. Non aveva mai sognato di farle male. In nessun modo possibile. Eppure aveva dei sogni da raccontarle. Tipo quello in cui la casa enorme dei suoi genitori era un negozio di bambole antiche pieno di polvere e in giardino c’era il sole ma le piante erano tutte bagnate.
E magari mentre glielo raccontava lei non lo ascoltava nemmeno e pensava ai suoi collages, alle bottiglie vuote di ceres sul davanzale della finestra che se faceva vento potevano cadere giù, e ammazzare qualcuno. Questo essere sempre altrove. Una volta mentre lui le parlava del suo lavoro, dei suoi dubbi esistenziali, delle crisi, dei temporali e dei vuoti d'aria lei pensava a Philippe Petit, anzi fingeva di essere Philippe Petit, anzi era Philippe Petit e la striscia laterale della strada di casa sua era una corda tesa sospesa a mille metri da terra tra Firenze e qualche posto lontanissimo e se riusciva a starci in equilibrio e percorrerla tutta sarebbe riuscita una volta per tutte a scappare. Lui era stato onesto, una volta. Ma di nascosto. Lei gli aveva raccontato tantissime bugie e poi se ne era pentita, o forse no.
-Ora puoi dirmi, per favore, quanti alberi ci sono in un bosco?
-No.
-Ti prego.
Eppure li aveva contati tutti un giorno, davvero. Ma era solo. E aveva anche questo segreto.
- Mi abbandonerai?
- Non abbandonarmi.
Lei.
Nell’esatto momento in cui si rese conto che sarebbe stato meglio restare se ne era già andata. Da qualche parte. Non temere, si ripeteva. Non avere paura. Puoi crederci. Anche i sedili della sua macchina saranno abbastanza comodi. Anche nella sua dispensa ci saranno delle tisane alla rosa canina, ai frutti rossi, al tiglio, alla menta. Anche nella sua libreria ci sarà qualche libro interessante. Invece no. E continuava a non capire chi dove cosa quando. E continuava a potare le siepi e a cogliere le margherite. E a comprare degli adesivi di feltro da mettere sotto le gambe delle sedie perché non facessero rumore. E continuava a fare la raccolta differenziata ma non sapeva dove mettere il sacchetto dei biscotti perché sembrava di carta, ma forse non lo era. E continuava a guardare nella cassetta della posta mentre rientrava, ma c’erano solo delle bollette e delle pubblicità. Il suo alito odorava dello stesso odore di certe mattine d’inverno, quando il sole c’è. Ma non si vede.
Lui.
A volte avrebbe voluto morire pur di non averla accanto. A volte avrebbe voluto morire e basta. A volte avrebbe voluto trovarla attraente. Pensava alle sue rughe e alle occhiaie di chi piange in attesa come della sentenza finale. Aveva più paura di notte che di giorno. Di notte più che di giorno. Non aveva mai sognato di farle male. In nessun modo possibile. Eppure aveva dei sogni da raccontarle. Tipo quello in cui la casa enorme dei suoi genitori era un negozio di bambole antiche pieno di polvere e in giardino c’era il sole ma le piante erano tutte bagnate.
E magari mentre glielo raccontava lei non lo ascoltava nemmeno e pensava ai suoi collages, alle bottiglie vuote di ceres sul davanzale della finestra che se faceva vento potevano cadere giù, e ammazzare qualcuno. Questo essere sempre altrove. Una volta mentre lui le parlava del suo lavoro, dei suoi dubbi esistenziali, delle crisi, dei temporali e dei vuoti d'aria lei pensava a Philippe Petit, anzi fingeva di essere Philippe Petit, anzi era Philippe Petit e la striscia laterale della strada di casa sua era una corda tesa sospesa a mille metri da terra tra Firenze e qualche posto lontanissimo e se riusciva a starci in equilibrio e percorrerla tutta sarebbe riuscita una volta per tutte a scappare. Lui era stato onesto, una volta. Ma di nascosto. Lei gli aveva raccontato tantissime bugie e poi se ne era pentita, o forse no.
-Ora puoi dirmi, per favore, quanti alberi ci sono in un bosco?
-No.
-Ti prego.
Eppure li aveva contati tutti un giorno, davvero. Ma era solo. E aveva anche questo segreto.
- Mi abbandonerai?
- Non abbandonarmi.
martedì 11 maggio 2010
lunedì 10 maggio 2010
Mais qui est en faute? Est-ce moi?
Qualcuno mi dica di chi è la colpa. Se la sera mentre andava in bicicletta in piazza Santa Croce con la sicurezza di non incontrarlo ed era già primavera c’era l’odore forte, molto forte dei glicini davanti al Cpa. Se lo aspettava in cima alle scale sapendo che non sarebbe venuto ed erano già le sette di sera e Firenze non era più bella di sempre, però sembrava più bella. Più bella. Più bella di sempre. Se quando faceva la spesa comprava non una ma due moretti, che non si sa mai. Se si era inventata una storia nemmeno troppo divertente per crederci davvero, anche se lo sapeva che era inventata, ma lei ci credeva, quasi. Se l’aveva guardato di sfuggita, solo di sfuggita e lui non si era nemmeno girato ma lei era sicura di averlo visto girarsi -ma non si era girato- e lei avrebbe giurato lo stesso che lui si era girato e l’aveva guardata. Se mentre passava da un angolo all’altro della stanza doveva passare proprio di lì, proprio di lì, tra il tavolo e l’acquaio, proprio di lì, e doveva sentire per caso l’odore della sua felpa, per caso, davvero, non si era neanche avvicinata per annusarla. Se aveva immaginato di fargli una carezza, solo una carezza. Mais qui est en faute? Est–ce moi? Siamo troppo intelligenti per restare intrappolati in qualche ragnatela di consuetudini e perbenismo ipocrita, ma non te lo dirò mai, né piano, né pianissimo.
lunedì 3 maggio 2010
I segni della stanchezza
Veramente non saprei dire se sono cambiate le stanze o sono cambiate le persone dentro le stanze o sono cambiate le persone dentro e basta. Io me lo ricordo. Stavamo tutto il giorno a percorrere le stesse piste ma vincevo sempre io.
Non avevamo mai fame ma in frigo c’erano sempre pizze surgelate carne surgelata prosciutto sottovuoto moretti da 66 estathè e latte ad alta digeribilità. Eravamo stanchi. (Magari una notte in un parcheggio semideserto è successo che lui l’ha guardata ed ha capito). Io lo sapevo, sarebbe stato meglio non riabbracciarti subito, ma credevo davvero che il mondo si potesse cambiare
da lì dentro, da quella macchina coi vetri appannati, io e te. Quella sera ero distrutta, facevo la doccia e ormai mi era passata la fame. Mi sono addormentata come sempre ma sapevo che loro sarebbero tornati, non ho spento la luce perché volevo svegliarmi ogni cinque minuti e vedere tutto, e cercare di mandarti affanculo ma non riuscire a liberarmi dell’odore di sigaretta delle sue dita, come un taglio che non cicatrizza, una ferita che non si rimargina e tutto questo è molto importante, ma e
un segreto, un segreto che ho potuto condividere solo con gli alberi della pineta e con il mio cuscino e con tutto ciò che ho bagnato di lacrime. Però mi avete visto anche ridere. (Magari un pomeriggio tornando dal mare è successo che lei lo ha guardato e ha deciso. Anche se le piaceva come suonava il pianoforte, le dita insicure, la schiena incurvata, il respiro trattenuto).
La mattina dopo stavo male, tanto male, così male che mi sembrava di stare benissimo, così stanca che avrei potuto arrivare a corsa da lui che ormai era così lontano. Ma ho deciso di non correre e di non sognare e di non sentire che la mia stanza non sarebbe stata più la stessa, quella stanza dove dovevo dormire ancora tante notti. E ho deciso anche di non dire mai più te lo giuro.
Di fare ancora una doccia,
di lavare via dal corpo i segni delle risate
e della stanchezza.
Non avevamo mai fame ma in frigo c’erano sempre pizze surgelate carne surgelata prosciutto sottovuoto moretti da 66 estathè e latte ad alta digeribilità. Eravamo stanchi. (Magari una notte in un parcheggio semideserto è successo che lui l’ha guardata ed ha capito). Io lo sapevo, sarebbe stato meglio non riabbracciarti subito, ma credevo davvero che il mondo si potesse cambiare
da lì dentro, da quella macchina coi vetri appannati, io e te. Quella sera ero distrutta, facevo la doccia e ormai mi era passata la fame. Mi sono addormentata come sempre ma sapevo che loro sarebbero tornati, non ho spento la luce perché volevo svegliarmi ogni cinque minuti e vedere tutto, e cercare di mandarti affanculo ma non riuscire a liberarmi dell’odore di sigaretta delle sue dita, come un taglio che non cicatrizza, una ferita che non si rimargina e tutto questo è molto importante, ma e
un segreto, un segreto che ho potuto condividere solo con gli alberi della pineta e con il mio cuscino e con tutto ciò che ho bagnato di lacrime. Però mi avete visto anche ridere. (Magari un pomeriggio tornando dal mare è successo che lei lo ha guardato e ha deciso. Anche se le piaceva come suonava il pianoforte, le dita insicure, la schiena incurvata, il respiro trattenuto).
La mattina dopo stavo male, tanto male, così male che mi sembrava di stare benissimo, così stanca che avrei potuto arrivare a corsa da lui che ormai era così lontano. Ma ho deciso di non correre e di non sognare e di non sentire che la mia stanza non sarebbe stata più la stessa, quella stanza dove dovevo dormire ancora tante notti. E ho deciso anche di non dire mai più te lo giuro.
Di fare ancora una doccia,
di lavare via dal corpo i segni delle risate
e della stanchezza.
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