venerdì 14 settembre 2012

The Story of Bow & Arrow

(Marina Abramović)














The arrow shows the direction
you absolutely should head for.
It's quite easy:
you just have to follow the arrow.
So the man follows the arrow that points
tremblingly, patiently, irretrievable
to her heart.
But even though they're close together,
it might be off target in the end.

mercoledì 12 settembre 2012

a/r

Partire di mattina con il sole che sorge piano
e piano colora i fili d'erba e l'asfalto
il cielo sopra Camp Darby
i tronchi dei pini e le ringhiere dei cavalcavia.
Ritornare di sera
appoggiare la testa al finestrino
guardare lo stesso paesaggio
e accorgersi che non è cambiato nulla
tranne la luce.

martedì 28 agosto 2012

se fossi



















Se tu fossi un colore saresti un blu scuro con
dei riflessi di luce argentata.
Se fossi un materiale saresti anthracite
duro, ma fragile;
costoso perchè difficilmente reperibile.
Se fossi una canzone saresti
Jazz Carnival degli Azymuth
ascoltata dal jukebox in un bar di Kreuzberg.
Se fossi una pianta saresti  un pioppo tremulo
con il tronco chiaro e dritto
e i rami sottilissimi protesi verso il cielo.
Se fossi una foto saresti una Polaroid
scattata nel 1979
con una data scritta dietro a pennarello.
Se fossi un suono saresti lo scricchiolio
che fanno i nastri quando la cassetta inizia a girare
ma a volte anche il rumore ritmico della pioggia battente
in certi pomeriggi di novembre.
Se fossi un'atmosfera saresti quella che si respira sul mare
verso l'ora di pranzo
sul finire dell'inverno
quando il sole incomincia a intiepidirsi
ma subito dopo la tramontana congela le mani, la faccia.
Se fossi un odore saresti l'odore che resta sulle labbra
dopo aver bevuto il primo sorso di birra in bottiglia
ma anche anche quello del salmastro che resta sui vestiti
dopo una notte passata seduti
appoggiati a un patino.
Se fossi un luogo saresti piazza Mascagni negli anni Sessanta
o la New York di quegli anni lì.

Se fossi un ricordo saresti un ginocchio su cui appoggiare la testa e dormire dieci minuti

di mattina

alla stazione.

sabato 18 agosto 2012

Prima o poi.



















Can you hear me Major Tom?

Un segno di vita.

Prima di notte.
  Prima o poi.

Sarebbe bello.




martedì 14 agosto 2012

Un momento prima c'era tutto



Affettare cipolle e piangere. Affettare e piangere, piangere. Quando si affettano cipolle non si può fare altro che piangere. Per il resto cercavo di non dimenticare nulla, di leggere per l'ultima volta quelle frasi, di ritrovare un'espressione, un tono di voce, ma niente. E' inverosimile come un momento prima c'era tutto, e un momento dopo lo cercavo, ma era scomparso, portato via da un clic, da una decisione presa di notte, con le zanzare aggrapate alle pareti, la finestra semiaperta, la luna calante e un posacenere accanto al cuscino. Cercavo il suo nome, i suoi rumori, un qualunque segno di vita di questa specie di amore bidimensionale. 

Questo vuoto, 
la voragine aperta in questi pomeriggi d'agosto, 
l'assenza senza l'attesa
-come quando finisce un concerto e i musicisti cominciano a smontare davvero, caricano gli strumenti sul furgone e se ne vanno,
questo capolinea, 
questa conclusione definitiva, 
questo the end 
non erano contemplati tra le possibilità. 

Ricordare tutto, incidere le sfumature, solo questo resta, solo una specie di pellicola impressa di odori, suoni, temperature, colori, vento sulla pelle, immagini traballanti sullo specchietto retrovisore mentre ti faccio strada verso un arrivederci
-che forse sapevamo essere un addio. 

Certi materiali riciclabili li accumuliamo in appositi contenitori perchè ci hanno detto di lasciare il mondo un po' meglio di come l'abbiamo trovato. Certe persone le chiudiamo in una scatola di cartone perchè ci hanno insegnato a conservare tutto. Certe notti le passiamo a camminare e raccontare perchè siamo soli, e abbiamo bisogno di mettere le nostre solitudini a confronto.

Ho comprato un libro per te, un libro che non posso regalarti. Ho comprato un libro che non ti darò mai, ma posso scriverti queste poche righe. Queste poche righe che sono il mio regalo per te.


[...]

Ringraziamo. Ogni tanto. 
Sia placido questo nostro esserci - 
questo essere corpi scelti 
per l’incastro dei compagni 
d’amore. 


Mariangela Gualtieri
"Bestia di gioia"


sabato 28 luglio 2012

Non ti perdere


Avrebbe voluto contare tutte le parole -una per una, registrarle con un Panasonic dell'84, riascoltarle sdraiata sul letto di una stanza umida e in penombra verso le sette di sera, decidendo di non cenare quella sera. Oppure in macchina, parcheggiata in un pratino con l'erba secca guardando un sole già tramontato. D'estate si dice che le giornate siano più lunghe, ma anche le notti a volte sembrano non passare mai. Avrebbe voluto registrare il rumore che faceva nell'appoggiare il tabacco sulla cartina, rollare la sigaretta, leccare la colla, strappare il pezzetto di carta avanzata, accartocciarlo, il rumore delle labbra che si staccano dal filtro, dal collo di vetro di una bottiglia di Heineken, dalla tazzina del caffè. Avrebbe voluto fotografare i dettagli con una Polaroid, il rosso scuro di un pezzo di stoffa che s'intravede dai pantaloni, il giallo di una scritta. Il colore della pelle di un viso che cambia da un giorno all'altro, il colore del dorso delle mani, dei gomiti, della nuca. Avrebbe voluto fotografare la posizione in cui stava seduto al tavolino di un bar, il modo in cui accavallava le gambe, misurare la velocità e l'ampiezza del gesto con cui si spostava i capelli dal viso. Avrebbe voluto memorizzare tutte le pieghe dei pantaloni, lo spessore delle suole consumate delle sue scarpe, i bottoni della camicia, l'attaccatura dei capelli, la forma delle unghie, il contorno della sua figura vista da lontano mentre chiedeva da accendere, l'odore rimasto per qualche giorno su una maglietta bianca con delle righe rosse davanti.

D'estate c'è come uno svelarsi prematuro dei corpi. Le braccia, le gambe, le schiene scoperte. D'estate le giornate sono più lunghe ma c'è come una fretta obbligata di mettere a nudo tutto e subito, di arrivare allo stomaco senza passare dalla bocca, dalla faringe, dall'esofago.

Avrebbe voluto guardare quel film al rallentatore, premere il tasto rew almeno due, cinque, otto volte e poi play lento. Lento. Lento. Come il processo della digestione. Avrebbe voluto dirgli tante cose, raccontare di quella volta che di notte aveva scoperto che lei non aveva ancora portato via il suo pianoforte, raccontare di quando era in terza liceo e cercava una maniera per non soccombere e un giorno la bidella aveva chiesto a voce alta alzi la mano chi vuole fare teatro, descrivere il tragitto che faceva in autostop dalla stazione di Ferrara a Pontelagoscuro, cantargli la prima strofa di una canzone che aveva inventato qualche anno fa. Avrebbe voluto chiedergli di che colore sono le sue lenzuola preferite, che sapone usa per lavare i panni, cosa si vede dalla finestra della sua cucina. Avrebbe voluto sapere a cosa pensa la notte prima di addormentarsi, come sta seduto quando legge, se mangia lo yogurt e a che gusto, se scrive dei biglietti di auguri per Natale e con che calligrafia. Chi aveva votato alle ultime elezioni, chi pensa di votare alle prossime. Avrebbe voluto vederlo almeno un'altra volta, almeno per qualche ora. Avrebbe osservato con cura le mani, i polsi, le spalle, l'espressione della faccia, l'inclinazione del collo, per trovare nei dettagli il senso dell'intero. Avrebbe voluto averlo incontrato di mattina presto, in un giorno di primavera, quando tutto deve ancora cominciare e gli alberi sono pieni di germogli e di promesse. Avrebbe voluto incontrarlo a piedi, da solo, un attimo prima del sorgere del sole, quando la luce che entra dalle finestre semiaperte è ancora fioca e gli uccellini non cantano ancora. Invece l'ha incontrato una sera d'estate e l'estate non fa sbocciare i fiori, fa maturare i frutti. E l'erba si secca tutta, le foglie sono ancora attaccate ai rami ma sanno già che l'autunno verrà per farle cadere, che nulla di ciò che vive è per sempre. D'estate le cose vive si preparano a morire.

 -Non ti perdere. Questo il suo regalo.

E non perdersi in questi lunghi corridoi di luci al neon e soffitti altissimi è veramente quasi impossibile.

Ma è una ragazza intelligente e non si perderà.

venerdì 6 aprile 2012

C'era una volta

C'era una volta una schiena. Una schiena diritta, il caffellatte con le fette biscottate, il giornale di oggi e quello di ieri. C'erano le otto di mattina e le quattro del pomeriggio e speriamo che oggi non piova. Un certo spessore, un peso, la lentezza, una lentezza estrema. I passi misurati, le soste. C'erano i maglioni di cashmeare, i pantaloni con la riga stirata perfetta, i fucili nella fuciliera, le scarpe nella scarpiera, il sapone sul lavandino, il tovagliolo di stoffa e quelli di carta. C'erano loro due insieme. C'erano le loro voci arrabbiate, incerte, severe, rassicuranti, interrogative, deluse, comprensive. C'erano le loro voci in tempo di guerra e in tempo di pace. Le loro voci c'erano. Ora, solo un grande silenzio.

giovedì 5 aprile 2012

A causa della gioia














che tristezza
tu ed io
e nient'altro
che tristezza


Non li ho sentiti entrare perchè ascoltavo Mother dei Pink Floyd a tutto volume. E chissà se è un caso che dalla finestra semiaperta vedevo la luce diventare ombra per un momento. Mi tolgo le cuffie e non mi danno il tempo di spengere il fornello, di richiudere il barattolo del caffè. I pomeriggi semplicemente accadono, anche se non fai nulla, anche se non dormi, non parli, non telefoni a nessuno. Le sere entrano dalla finestra e portano ancora l'odore dei glicini che sono lontani parecchi chilometri.

cercando dio tra le gambe
di un tavolo


Senza occhiali ormai non vedo più niente. Ti leggo su questo libro con le pagine un po' ingiallite e mi commuove anche la dimensione dei caratteri, le parole balsamiche, le parole lenitive, le parole annodate, affilate, tagliate e cucite con mano paziente e precisa. C'è scritto anche una volta cuore e c'è un errore di stampa, ma è un errore non tuo. Un errore di qualcun altro. Non tuo.

dimmi
tu non hai paura della morte
quando ti lavi i denti


E mi parli di me con parole tue, di quando mi sembra di cadere nell'abisso e accarezzo la sedia e i vestiti e poi mi trovo su un'altra stella ma ho ancora la mia sedia. Mi parli delle mie notti e dei miei amori inconfessabili, di starnutire e fumare una sigaretta e piangere di gioia. Ora sento i rumori veri, i rumori della realtà. I loro passi, le campane lontane, le rondini che non sanno nulla di noi, i vostri respiri, la sua voce acutissima. E non me l'aspettavo, davvero, non me l'aspettavo.

e io che corro corro corro

I pomeriggi accadono, come accadono gli incidenti, le primavere e le rivoluzioni. E noi che vorremmo fare qualcosa e invece aspettiamo e aspettiamo e non ammetteremo mai che forse non ci crediamo più. Questo letto che cigola non lo sopporto più, questo soffitto bianchissimo che diventa grigio mentre fuori diventa buio. Le macchine della polizia una dietro l'altra con le sirene e i lampeggianti e poi anche un camioncino e un poliziotto in borghese.

fa' sì che non pianga mai
fa' sì che non muoia mai
fa' sì che si diffonda il tuo sorriso


E dove siete tutti, che dalla finestra non vedo altro che il tetto di un autobus che si allontana e non ho ancora capito se è l'ora dell'alba o del tramonto, sento solo il cielo arancione e le guance schiacciate contro le pareti fredde e le mani piegate dietro la schiena e penso solo -non mi farò spezzare tutte le ossa una ad una. Ma se non fosse per questi scricchiolii, ora ci sarebbe un bellissimo silenzio.



poichè a nessuno viene in mente
che fumare una sigaretta
starnutire sorridere
o piangere in mezzo ai fiori
sia soltanto a causa della gioia




corsivo di J.E.Eielson

sabato 18 febbraio 2012

Racconto triste di due ragazzi belli alle sette di un mattino

Il letto non era esattamente pulito, la camera era carica di un odore non suo, dalla finestra filtrava una luce grigia, non era freddo, né caldo. Lui era da qualche parte, cioè precisamente lì, accanto a lei, con i calzini di spugna blu scuri bucati sul
calcagno, con i piedi sudati, con la bocca aperta, rannicchiato su un fianco. Non ci si affaccia alla finestra alle sette del mattino se si è nella stanza di un albergo a una stella nella periferia di una città brutta vuota e lontana. Lontana da dove? Non importa. I paesaggi a volte sono desolati. Lei sì era alzata da quel letto stando attenta a non farlo cigolare, ma invano. Aveva provato a respirare ma non c’era aria, aveva sete ma non c’era acqua, cercava nello specchio una qualsiasi ragione valida per trovarsi lì, ma doveva ammettere che non c’era nient’altro che la inutile costante voglia di evadere, o forse solo provare a esistere, essere un cazzo di qualcuno, anche per finta. Lui dormiva, sicuramente senza intenzione di svegliarsi perché solo lei, solo lei poteva aver voglia di starsene lì, con le mani e la faccia schiacciate contro un vetro freddo, a guardare la nebbia, le fabbriche, la propaganda elettorale, l’unica macchina parcheggiata e i cespugli tagliati forse l’anno scorso nel cortile triste di quell’albergo triste di quella periferia triste di quella città triste.
Una ragazza bella e un ragazzo bello dovrebbero trovarsi da qualche altra parte, alle sette e cinque di un lunedì di una primavera incostante, troppo fredda e bugiarda. Non dovrebbero esistere coperte marroncine e lenzuola bianco sporco non dovrebbero esistere tendine giallo ocra fatte all’uncinetto e scrivanie di legno finto, non dovrebbero esistere quadretti con le cornici di plastica scura che raffigurano frutta morta e uccelli morti e famiglie morte. Non dovrebbero esistere piastrelle del bagno verdoline e saponettine dal profumo nauseante e asciugamani lisi e rubinetti incrostati di calcare e ciambelle del cesso che puzzano di piscio e disinfettante.
Moriva di sete. Quella ragazza bella aveva le labbra secche e l’alito cattivo, i capelli puliti ma spettinati, gli occhi contornati del nero sfatto un po’ colato dell’eyeliner della sera prima lasciato lì come a volte si lasciano alle pareti le foto di qualcuno che non si ama più, solo perché toglierle fa fatica. Ora se qualcuno fosse stato lì l’avrebbe vista fissare il lavandino con l’aria schifata e indecisa. Più schifata che indecisa. L’acqua del rubinetto odorava di qualcosa che stava marcendo, di fosso, di fiume inquinato, di mare in putrefazione. La sua pelle conservava ancora l’odore della saliva di qualcun altro, ma non poteva ancora sentirla familiare. Le persone un giorno non si conoscono, il giorno dopo credono di conoscersi –perché si sono rivelate il segreto che si tenevano in serbo per le grandi occasioni, ma non si conoscono affatto. E forse non mangeranno mai dallo stesso piatto e non faranno mai una passeggiata e non ascolteranno musica dalla stessa autoradio e lui non presterà mai a lei il suo spazzolino e lei non gli regalerà mai un alberello con dei mandarini acerbi da piantare in un cazzo di giardinetto da qualche parte lontano da lì. Non sa neppure quando è il suo compleanno. Ma questo non c’entra nulla. In ogni caso non bevve, non si lavò e non tornò a letto.

lunedì 2 gennaio 2012