lunedì 24 ottobre 2011

Mi stanco.



Ad occhi chiusi mi metto in ascolto. Sento rumore di acqua e di una macchina che passa. Potrei sentire solo acqua, e invece macchina, motore, frizione, freno. Sento stormire di foglie d’acacia e tralicci della corrente che friggono. Sento calore di coperta elettrica bramando calore di corpo umano. Non so immaginare la temperatura del suo corpo, penso a un corpo freddo di donna -penso al corpo freddo, ruvido di mia madre.


Non ho assaggiato latte materno, bianco, caldo, latte denso da seno, da corpo, latte dolce, istinto di cucciolo animale. Sono fatta di latte in polvere e liofilizzato, omogeneizzato, sono un organismo geneticamente mortificato. Mangio pane finto, mangio grassi idrogenati, correttori di acidità, esaltatori di sapidità, coloranti, conservanti e addensanti. Il solo fuoco che conosco è blu e non brucia, non devasta, non avanza. Sniffo gas e benzina e cherosene, diossido e monossido di carbonio, verso acetone su unghie colorate e mastico qualcosa che non posso buttare giù. Ingoio solo saliva aspra, amara, aromatizzata e respiro solo aria pesante, nera, sudicia. Non lavo i panni nel fiume, non cammino a piedi scalzi, non vado a piedi,

   mi stanco

non conosco i nomi delle erbe curative, mangio fragole d’inverno e soufflè al cioccolato fuso in 3 minuti e 50 secondi nel forno a microonde

        mi stanco mi stanco mi stanco.

Non ho visto agnelli insanguinati uscire dall’utero di pecore di lana sporca, non ho sentito l’odore del sudore delle donne aggrovigliolate nelle vigne -ma ho sentito di donne stuprate da stilisti omosessuali e ho visto le loro ossa su copertine -le loro ossa.

Vorrei bere acqua dalle mani di mio nonno e imparare da lui a dipingere e imparare il nome dei colori e imparare il nome di tutti gli alberi e dei pesci e imparare il nome di tutte le cose e sentire l’odore di tutte le cose.

il sole sorge e tramonta
e a volte riscalda
ma potrebbe anche non riscaldare
e dalle persiane al mattino entra un raggio
ma potrebbe
anche non entrare
il sole sorge
tramonta
ma potrebbe anche non sorgere.





.

venerdì 7 ottobre 2011

Se mi aspetti

Ci risiamo, l'aria fresca della mattina presto, restare ancora una mezz'ora a letto, l'acqua verdastra di questo fiume che ci scorre a pochi metri, l'aspettarti, aspettare che apri il cancello, che entri con i tuoi sacchettini di cialde e gelato al pistacchio, con le tue mani ruvide, con i tuoi occhi e tutto il resto -come se fossi un regalo. Aspettare che torni il sole tiepido dell'ora di pranzo sul mare, che torni la domenica mattina, i mesi freddi dell'inverno, i mesi che forse ci sei ma forse parti ma forse potremmo anche partire insieme

se mi aspetti.

giovedì 1 settembre 2011

E' ancora qui

Credo sia una specie di reazione chimica questa cosa che preme arriva comprime allarga tutto e apre e poi va nella gola e ci resta, tipo un nodo. Questa cosa che non ricordavo più. E tutto il corpo lo sa, tutto il corpo ha già deciso. Questa cosa è simile a una pausa tra due dolori, è come un sollievo ma ancora più prezioso. E' più di un regalo.

Ci siamo proprio noi. Ci sei tu e ci sono io e non ci possiamo ancora guardare negli occhi. Guardo la tua figura allontanarsi nell'esatto momento in cui non posso dire se sia ancora notte o già mattina, il mio corpo a pochi metri dal tuo, i nostri corpi e solo l'odore di qualcos'altro.

Io volevo essere proprio qui.
Io volevo essere proprio qui.

Ci riserviamo il diritto di sbagliare e mi commuove il tuo tentativo di non essere frainteso. La tua disarmante sincerità, i tuoi occhi che guardano in alto a destra mentre mi dici che le parole non servono. E c'è come una sorta di nostalgia anticipata, questo groppo alla gola che mi ripete è ancora qui è ancora qui. Eri in piedi davanti a me con la faccia bellissima e i capelli ancora bagnati. Ti ho promesso di non piangere e quella specie di regalo che mi hai fatto ho promesso di non perderlo mai.

lunedì 29 agosto 2011

Ma anche se partissi

Non chiedere mai nulla
che sia meno della gioia

Mariangela Gualtieri



Le mani tue che sono le mani di chi le mani le usa
le mani tue che non profumano quasi mai
fatti avanti, te che sai fare il pane
te che ti svegli sempre prima dell'alba
noi che guardiamo il sole sorgere sempre un po' più a sud
con i piedi nell'acqua tiepida
e tutti i nostri tramonti
le dita che si infilano nelle pance dei pesci
le dita che annodano e spezzano
annodano e spezzano
continuamente
i verbi all'indicativo futuro
e non avere il coraggio di chiedere
le strade di marina che sono le stesse di cinquant'anni fa
le nostre biciclette legate
e dopo questa estate settembre e poi ottobre e poi un altro inverno
e io che non so se sopravviverò
la pelle tua che non potrà mai essere una corazza
questa attesa lenta e impossibile e necessaria
questa lentezza assoluta
questo non chiedere nulla non dire nulla
questa mancanza di quasi tutto
i nostri gesti misuratissimi, gli articoli di giornale
le decisioni prese al tavolino di un bar
verso le nove di mattina
non è detto che parta
non è detto che parta

ma anche se partissi
lo sapevo che tutto il resto era un regalo
e non ho mai chiesto nulla
che fosse meno della gioia.

lunedì 20 giugno 2011

Corpi estranei

Ora ti parlo dello sguardo della Madonna che mi guardava dall'altro lato del tavolo mentre recitavo in cuore il signore è con te tu sei benedetta tra le donne e benedetto il frutto del seno tuo -era severo come il tono di voce di Pertini quando faceva l'appello ai giovani. Era pieno di comprensione e compassione. Era il contrario di assente, il contrario di vuoto. (-non avere paura è come dire: -non avere sete -non tremare di freddo -non ci pensare).

Appoggiavi con cura il tuo anello sul comodino. Appoggiavamo con cura i vestiti sulla seggiola. E le scarpe non le lasciavamo mai in fondo al letto. Le mettevamo in una cassa del latte di plastica gialla. Il divano era rosso, un rosso ciliegia scuro e non era un vero divano, era un futon dell'Ikea. Vorresti tutti i particolari, tutti i particolari ma se anche ci provassi non potrei descriverti il colore di tutte quelle piastrelline che c'erano nel bagno perchè erano di così tanti celesti diversi che non te li saprei proprio spiegare, davvero. E quando di notte ci affacciavamo alla finestra, ma quale finestra non saprei dirtelo, avevamo sempre gli occhi grandi e le mani fredde. Fissavamo i lampioni di Viale Europa, di Rue Saint Jacques, le luci della Solvay, il campanile della chiesa, il fiume, l'insegna dell'impresa funebre dietro le inferriate.

Ma poi è arrivata anche questa primavera, la nostra felicità di stasera malgrado tutti i governi e il debito pubblico della Grecia, i tuoi occhi non molto grandi, le tue parole cortesi a prescindere dai molti chilometri di autostrada. Parecchi litri di benzina per portare le tue parole a pochi metri dal mare. Il regalo che sto per farti si trova ancora molto lontano da qui, i virus viaggiano attraverso i nostri gesti d'amore e ci stiamo già organizzando per disinfettare tutto. Qualche volta non torni, e io resto in cucina a guardare il rubinetto dell'acquaio e a pensare alle sere estive del 1989 o giù di lì. Qualche volta invece ritorni e i tuoi passi disegnano in giardino delle specie di costellazioni, allora io posso alzarmi dalla sedia e andare in un'altra stanza e tutto cambia in un attimo, la chiave giusta che gira nella serratura e quasi tutti i rumori che diventano familiari. Le nostre facce. Il mio corpo fermo in piedi davanti al tuo. I nostri corpi immobili. I nostri corpi estranei.

martedì 22 marzo 2011

Dalle mie parti è sempre inverno

Ci è toccato di vivere questo tempo, di camminare questi marciapiedi, abitare queste stanze dalle pareti bianchissime. Ci è toccato di stare seduti su sedie di legno duro, di scrivere senza inchiostro, di seguire la catastrofe in diretta dalla poltrona del salotto e chissà perchè viaggiano e dove vanno quelli che viaggiano di notte. Noi preferiamo sentirli passare i treni, attraversare i binari a corsa pensando a quella scena di un film dove a lei rimane un tacco incastrato nelle rotaie. E ora ci tocca di vedere questi corpi e queste case, queste distese di terra secca e queste bandiere, questi cieli illuminati sempre (rivogliamo il buio). Ci è toccato di essere noi gli assassini, di usare gli alberi e tutte le altre vite per scrivere due righe d'amore, per lasciare le multe sotto i tergicristallo, per pulirsi gli angoli della bocca, le mani, il culo. Ci è toccato di assistere ai massacri e al Festival di Sanremo. E ora ci tocca di imparare a camminare, andare a piedi, avere freddo. Ci tocca di prendere in mano le zappe e i secchi e l'annaffiatoio. Ci tocca di sporcarsi le mani, le scarpe. Ci tocca di infilare le unghie nella terra.


Ora la notte non dormo e penso alle tue ossa, all'odore di quella poca carne che c'era rimasta appiccicata e all'odore che è rimasto in macchina mia. -Non lo sapevo che le ossa fossero rifiuti speciali. Ora la notte penso all'equinozio di primavera, al giorno che dura un minuto più della notte e poi un'ora e poi l'estate e poi le foglie morte un'altra volta, che tanto dalle mie parti è sempre inverno. La notte non dormo più e penso alle parole che aprono le voragini nei cuori e non è giusto, non è giusto che qualcosa si possa dire così bene, con quell'essere così composti e così micidiali. Così esatti. La notte ormai non è più per dormire, è per dire agli spigoli la fatica e la pazienza. Per riflettere sul da farsi. Per ridere piano. Per fare la lista della spesa.





Allora tu sei la mia lezione più grande
l'insegnamento supremo.
Esiste solo l'uno, solo l'uno esiste
l'uno solamente, senza il due.

Mariangela Gualtieri

mercoledì 2 marzo 2011

Frutti

Con i piedi nella terra e le mani verso il cielo per illuderci di essere piante e non dover pagare l’imu, avere la partita iva, il telepass, la disoccupazione a requisiti ridotti. Con la faccia all’insù e la bocca aperta per qualche goccia di pioggia, qualche raggio di sole. La terra è fredda, sotto. E ruvida. E umida. Ma a volte anche dura e secca, come i marciapiedi. Il cielo ci guarda sempre, di giorno e poi di notte e poi di giorno e qualche volta le stelle non si vedono, ma ci sono di sicuro. Le stagioni prima o poi arrivano tutte, una alla volta: dopo l'inverno sempre la primavera. E a chi mi chiede un’albicocca io rispondo: -non posso dartela, sono un mandorlo.

martedì 15 febbraio 2011

Tutto scorre.

Invoco il tempo come se fosse un dio.
Invoco il tempo di passare veloce. Che passi in fretta, dico. Che passi. Che cancelli, che ricucia, che ricolmi. Che accorci le distanze, che porti dei doni, che sveli i segreti. Che passi, che passi in fretta. Non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume, diceva Eraclito. Panta rei. Tutto scorre.

Tutto scorre, tranne la notte.

mercoledì 26 gennaio 2011

Pasolini voleva morire di domenica

Compriamo il giornale e chiudiamo un attimo gli occhi prima di guardare la prima pagina. Neanche oggi, no. Non è il gran giorno. Aspettiamo questo gran giorno cercando di immaginarcelo nei minimi dettagli ma non ci viene in mente nulla di preciso. Non abbiamo un'immagine di come ci sveglieremo la mattina del gran giorno. Non sappiamo immaginarci il portone dal quale usciremo per andare a fare qualcosa di normale tipo colazione o la spesa. Come saremo vestiti, il gran giorno? Saremo insieme? O sarò da sola davanti all'edicola di quella piazza che io credevo fosse Piazza Viesseux, ma che forse si chiama in qualche altro modo? Forse saremo seduti in un bar. Una voce di donna interromperà le trasmissioni televisive per dire che è oggi. Nel bel mezzo di un programma inutile in cui un conduttore inutile sta parlando di cose inutili con quella voce che ti arriva da destra mentre mangi un toast e non ci fai nemmeno caso. Il gran giorno potrebbe sorprenderci al circolino, verso le due del pomeriggio. Oppure in macchina, mentre ascoltiamo Radio Radicale. All'improvviso irrompe questa voce, e questa voce ci dice che è oggi. Io vorrei essere vestita bene in quel momento, vorrei avere un bel bracciale o un paio d'orecchini d'argento. Poi vorrei avere i soldi nel cellulare perchè sentirei il bisogno di chiamare subito qualcuno. Potrebbe essere un martedì, un giovedì, una domenica. (Pasolini voleva morire di domenica).

Quando abbiamo preso atto che no, non era oggi, la nostra giornata può prendere il contorno banale di sempre. Possiamo tranquillamente incamminarci verso l'uscita. Siamo gentilmente pregati di avviarci verso l'uscita. Siamo praticamente obbligati ad avviarci verso l'uscita. Senza neanche stare a domandarci se siamo visitatori, passeggeri o gentili clienti. E apriranno altri centri commerciali, altri stabilimenti balneari, altre discariche. Costruiranno delle ringhierine di ferro per ciscoscrivere l'avanzata delle aiuole. E chiuderanno altre librerie, perchè i libri non li legge più nessuno. Chiuderanno altri fiorai, perchè i fiori non servono più a nessuno. Sono già chiusi quasi tutti i negozi di dischi e chiuderanno anche i kebabbari, prima o poi. Gli alimentari dei peruviani e dei cinesi, che non si capisce se è per via di una specie di complotto, ma chiudono sempre per primi. Le chiese e le galere invece non chiuderanno mai. I benzinai, i parcheggi sotterranei, i centri di permanenza temporanea. Gli uffici anagrafe, gli uffici di collocamento, gli uffici. Continueranno a farci mangiare quello che vogliono, uccidendoci piano e di una morte che hanno deciso loro. Sarebbe bello poterci sputare sopra a questo surrogato di felicità, ma è l'unica parvenza di vita che ci resta e mi dici che fuori da questa finestra sembra che il tempo non passi perchè non si sentono le campane. Suonano ripetutamente il campanello per venderci delle enciclopedie-obbligarci a fare beneficenza-mettere nelle cassette della posta i depliant con le offerte dell'Esselunga mentre un neolaureato psicologo del lavoro sta cercando di testare un gingle pubblicitario su di noi.

Mi hai chiesto: qual'è stato il dolore più grande della tua vita? (Non è che me l'hai chiesto di tua spontanea volontà, è che ci stavamo facendo delle domande).

Il dolore più grande della tua vita:

niente di meno poetico. Un dente cariato. Forse il setto nasale rotto sanguinante sul marciapiede con le macchine che passano. Le ruote che rallentano e non si fermano. Il marciapiede che diventa rosso e la voglia di essere a casa, a letto, nella vasca, in cucina, con una tazza di camomilla (anche solubile) o un digestivo di qualsiasi genere. Come quando cercavo di mettere in valigia tutte le cose possibili senza che tu cercassi di fermarmi. Come quando camminavo e sapevo che ormai non mi avresti più fermato e che ormai non saresti più venuto a cercarmi e mi stava bene così.

Sapevo che esisteva e che prima o poi avrebbe dovuto avere un nome. Come tutte le cose di questo mondo. Sapevo anche che poteva succedere così, en passant, tra una frase banale e una galleria. Ma ho dovuto lo stesso sforzarmi di non piangere e di fare la faccia indifferente (anche se tanto non mi vede, mi dicevo, perchè siamo al telefono ed è anche andata via la linea). Avrei voluto mettere su quel sedile un mazzo di fiori come quelli che mettono ai bordi delle strade dove muore la gente. Avrei voluto cantare un canto funebre. Un treno, un finestrino senza paesaggio, gente sovrappensiero. Un cuore può fermarsi anche con questa nonchalance.

martedì 18 gennaio 2011

All'improvviso piangere.


Ci sono delle piantine che muoiono prima ancora di nascere, delle piantine che muoiono piccole e delle piantine che crescono e diventano delle piante medie e poi delle piante grandi e a quel punto una notte d'inverno non può far loro molto del male. La nostra piantina sembra della seconda specie, di quelle che muoiono piccole. Abbastanza indifesa da non poter quasi nulla contro la distrazione e la siccità.
Morendo mi ha confessato il suo ultimo desiderio, era un po' di caffè con lo zucchero di canna. Gliel'ho dato.
Non succede spesso che una piantina morta rerusciti, anzi direi che non succede mai. Però ho pensato che alla nostra potrebbe capitare. Magari ha fatto solo finta di morire per attirare un po' l'attenzione. Ora potremmo voltarci, piangere un po' per dimostrare che in fondo ci importava davvero di lei. E quando ci volteremo di nuovo lei tirerà fuori una foglia, poi un petalo, così, alla velocità delle cose normali, come infilarsi i pantaloni o masticare un kebab.

In luoghi molto lontani da qui, cioè tipo a 2000 euro di aereo, un milione di alberi stanno esprimendo i loro ultimi desideri ma nessuno li sente perchè il rumore delle motoseghe è troppo forte. Un miliardo di foglie che ora sono verdi e poi gialle e poi marroni e che poi saranno quaderni a righe, a quadretti, a pentagrammi, armadietti per i medicinali in qualche farmacia, seggiole di qualche ministro dell'istruzione, fotocopie, mensole, soppalchi e altre cose di cui non possiamo fare a meno.

Nel frattempo succedono un sacco di altre cose che apparentemente non c'entrano nulla. Eccolo, il suo orecchino preferito. Mentre lo prendeva da terra e glielo porgeva con la mano che era capace anche di gesti piccoli e misurati, anche di carezze e cure, mentre la sua bocca prendeva la forma di una specie di sorriso bellissimo, mentre il mondo e tutti i cuori e tutti gli orologi si fermavano. Suo. Le aveva parlato in terza persona, aveva detto così. Eccolo. Il suo orecchino preferito. E poi glielo aveva avvicinato all'orecchio. Nessuno si ricorderebbe una cosa del genere. Mentre tornavamo dal mare ho guardato fuori dal finestrino (il sole credo fosse già tramontato) e ho pensato agli occhi dei partigiani, cioè, ho pensato ai partigiani che non ci vedevano bene e che per mettere a fuoco dovevano strizzare gli occhi, specialmente a quest'ora che non è ancora buio ma quasi. Mi sono immaginata le donne di questi partigiani che quando li avrebbero rivisti sarebbero state felicissime anche se avevano le rughe d'espressione. Le rughe della disperazione. Le rughe degli occhi strinti per mettere a fuoco i boschi alle cinque e mezzo dei pomeriggi d'inverno. Un giorno camminavo con il solo desiderio di passare inosservata (e difatti nessuno mi ha osservato), camminavo con lo sguardo ad un'altezza media. Non così bassa da sembrare triste e abbattuta come chi guarda il marciapiede o le proprie scarpe ma nemmeno così alta da sembrare una donna solare e sicura di sé, come una giovane avvocatessa o qualcosa del genere. E nemmeno così alta da poter incrociare lo sguardo di qualcuno di cui innamorarmi all'istante. Potevo vedere abbastanza bene le mani della gente, le siepi, qualche campanello, la ringhiera di Ponte alle Grazie, gli sportelli delle macchine, il tuo giacchetto. Il tuo giacchetto e il suo. I vostri giacchetti, i vostri giacchetti che si scambiavano gesti cortesi. I vostri giacchetti che conversavano amabilmente. Che probabilmente di lì a poco avrebbero camminato insieme verso la macchina e poi avrebbero aperto lo sportello e ci sarebbero saliti e poi sarebbero riscesi e poi sarebbero stati per un po' appoggiati da qualche parte e poi un giacchetto sarebbe andato via magari con l'autobus ma il giorno dopo o due giorni dopo o chissà quanti giorni dopo si sarebbero rivisti e magari avrebbero ballato e fatto la spesa insieme e altre cose insignificanti.

Suo. Il suo orecchino preferito. Sono sempre estremamente banali le cose che fanno piangere all'improvviso.