mercoledì 26 gennaio 2011

Pasolini voleva morire di domenica

Compriamo il giornale e chiudiamo un attimo gli occhi prima di guardare la prima pagina. Neanche oggi, no. Non è il gran giorno. Aspettiamo questo gran giorno cercando di immaginarcelo nei minimi dettagli ma non ci viene in mente nulla di preciso. Non abbiamo un'immagine di come ci sveglieremo la mattina del gran giorno. Non sappiamo immaginarci il portone dal quale usciremo per andare a fare qualcosa di normale tipo colazione o la spesa. Come saremo vestiti, il gran giorno? Saremo insieme? O sarò da sola davanti all'edicola di quella piazza che io credevo fosse Piazza Viesseux, ma che forse si chiama in qualche altro modo? Forse saremo seduti in un bar. Una voce di donna interromperà le trasmissioni televisive per dire che è oggi. Nel bel mezzo di un programma inutile in cui un conduttore inutile sta parlando di cose inutili con quella voce che ti arriva da destra mentre mangi un toast e non ci fai nemmeno caso. Il gran giorno potrebbe sorprenderci al circolino, verso le due del pomeriggio. Oppure in macchina, mentre ascoltiamo Radio Radicale. All'improvviso irrompe questa voce, e questa voce ci dice che è oggi. Io vorrei essere vestita bene in quel momento, vorrei avere un bel bracciale o un paio d'orecchini d'argento. Poi vorrei avere i soldi nel cellulare perchè sentirei il bisogno di chiamare subito qualcuno. Potrebbe essere un martedì, un giovedì, una domenica. (Pasolini voleva morire di domenica).

Quando abbiamo preso atto che no, non era oggi, la nostra giornata può prendere il contorno banale di sempre. Possiamo tranquillamente incamminarci verso l'uscita. Siamo gentilmente pregati di avviarci verso l'uscita. Siamo praticamente obbligati ad avviarci verso l'uscita. Senza neanche stare a domandarci se siamo visitatori, passeggeri o gentili clienti. E apriranno altri centri commerciali, altri stabilimenti balneari, altre discariche. Costruiranno delle ringhierine di ferro per ciscoscrivere l'avanzata delle aiuole. E chiuderanno altre librerie, perchè i libri non li legge più nessuno. Chiuderanno altri fiorai, perchè i fiori non servono più a nessuno. Sono già chiusi quasi tutti i negozi di dischi e chiuderanno anche i kebabbari, prima o poi. Gli alimentari dei peruviani e dei cinesi, che non si capisce se è per via di una specie di complotto, ma chiudono sempre per primi. Le chiese e le galere invece non chiuderanno mai. I benzinai, i parcheggi sotterranei, i centri di permanenza temporanea. Gli uffici anagrafe, gli uffici di collocamento, gli uffici. Continueranno a farci mangiare quello che vogliono, uccidendoci piano e di una morte che hanno deciso loro. Sarebbe bello poterci sputare sopra a questo surrogato di felicità, ma è l'unica parvenza di vita che ci resta e mi dici che fuori da questa finestra sembra che il tempo non passi perchè non si sentono le campane. Suonano ripetutamente il campanello per venderci delle enciclopedie-obbligarci a fare beneficenza-mettere nelle cassette della posta i depliant con le offerte dell'Esselunga mentre un neolaureato psicologo del lavoro sta cercando di testare un gingle pubblicitario su di noi.

Mi hai chiesto: qual'è stato il dolore più grande della tua vita? (Non è che me l'hai chiesto di tua spontanea volontà, è che ci stavamo facendo delle domande).

Il dolore più grande della tua vita:

niente di meno poetico. Un dente cariato. Forse il setto nasale rotto sanguinante sul marciapiede con le macchine che passano. Le ruote che rallentano e non si fermano. Il marciapiede che diventa rosso e la voglia di essere a casa, a letto, nella vasca, in cucina, con una tazza di camomilla (anche solubile) o un digestivo di qualsiasi genere. Come quando cercavo di mettere in valigia tutte le cose possibili senza che tu cercassi di fermarmi. Come quando camminavo e sapevo che ormai non mi avresti più fermato e che ormai non saresti più venuto a cercarmi e mi stava bene così.

Sapevo che esisteva e che prima o poi avrebbe dovuto avere un nome. Come tutte le cose di questo mondo. Sapevo anche che poteva succedere così, en passant, tra una frase banale e una galleria. Ma ho dovuto lo stesso sforzarmi di non piangere e di fare la faccia indifferente (anche se tanto non mi vede, mi dicevo, perchè siamo al telefono ed è anche andata via la linea). Avrei voluto mettere su quel sedile un mazzo di fiori come quelli che mettono ai bordi delle strade dove muore la gente. Avrei voluto cantare un canto funebre. Un treno, un finestrino senza paesaggio, gente sovrappensiero. Un cuore può fermarsi anche con questa nonchalance.

martedì 18 gennaio 2011

All'improvviso piangere.


Ci sono delle piantine che muoiono prima ancora di nascere, delle piantine che muoiono piccole e delle piantine che crescono e diventano delle piante medie e poi delle piante grandi e a quel punto una notte d'inverno non può far loro molto del male. La nostra piantina sembra della seconda specie, di quelle che muoiono piccole. Abbastanza indifesa da non poter quasi nulla contro la distrazione e la siccità.
Morendo mi ha confessato il suo ultimo desiderio, era un po' di caffè con lo zucchero di canna. Gliel'ho dato.
Non succede spesso che una piantina morta rerusciti, anzi direi che non succede mai. Però ho pensato che alla nostra potrebbe capitare. Magari ha fatto solo finta di morire per attirare un po' l'attenzione. Ora potremmo voltarci, piangere un po' per dimostrare che in fondo ci importava davvero di lei. E quando ci volteremo di nuovo lei tirerà fuori una foglia, poi un petalo, così, alla velocità delle cose normali, come infilarsi i pantaloni o masticare un kebab.

In luoghi molto lontani da qui, cioè tipo a 2000 euro di aereo, un milione di alberi stanno esprimendo i loro ultimi desideri ma nessuno li sente perchè il rumore delle motoseghe è troppo forte. Un miliardo di foglie che ora sono verdi e poi gialle e poi marroni e che poi saranno quaderni a righe, a quadretti, a pentagrammi, armadietti per i medicinali in qualche farmacia, seggiole di qualche ministro dell'istruzione, fotocopie, mensole, soppalchi e altre cose di cui non possiamo fare a meno.

Nel frattempo succedono un sacco di altre cose che apparentemente non c'entrano nulla. Eccolo, il suo orecchino preferito. Mentre lo prendeva da terra e glielo porgeva con la mano che era capace anche di gesti piccoli e misurati, anche di carezze e cure, mentre la sua bocca prendeva la forma di una specie di sorriso bellissimo, mentre il mondo e tutti i cuori e tutti gli orologi si fermavano. Suo. Le aveva parlato in terza persona, aveva detto così. Eccolo. Il suo orecchino preferito. E poi glielo aveva avvicinato all'orecchio. Nessuno si ricorderebbe una cosa del genere. Mentre tornavamo dal mare ho guardato fuori dal finestrino (il sole credo fosse già tramontato) e ho pensato agli occhi dei partigiani, cioè, ho pensato ai partigiani che non ci vedevano bene e che per mettere a fuoco dovevano strizzare gli occhi, specialmente a quest'ora che non è ancora buio ma quasi. Mi sono immaginata le donne di questi partigiani che quando li avrebbero rivisti sarebbero state felicissime anche se avevano le rughe d'espressione. Le rughe della disperazione. Le rughe degli occhi strinti per mettere a fuoco i boschi alle cinque e mezzo dei pomeriggi d'inverno. Un giorno camminavo con il solo desiderio di passare inosservata (e difatti nessuno mi ha osservato), camminavo con lo sguardo ad un'altezza media. Non così bassa da sembrare triste e abbattuta come chi guarda il marciapiede o le proprie scarpe ma nemmeno così alta da sembrare una donna solare e sicura di sé, come una giovane avvocatessa o qualcosa del genere. E nemmeno così alta da poter incrociare lo sguardo di qualcuno di cui innamorarmi all'istante. Potevo vedere abbastanza bene le mani della gente, le siepi, qualche campanello, la ringhiera di Ponte alle Grazie, gli sportelli delle macchine, il tuo giacchetto. Il tuo giacchetto e il suo. I vostri giacchetti, i vostri giacchetti che si scambiavano gesti cortesi. I vostri giacchetti che conversavano amabilmente. Che probabilmente di lì a poco avrebbero camminato insieme verso la macchina e poi avrebbero aperto lo sportello e ci sarebbero saliti e poi sarebbero riscesi e poi sarebbero stati per un po' appoggiati da qualche parte e poi un giacchetto sarebbe andato via magari con l'autobus ma il giorno dopo o due giorni dopo o chissà quanti giorni dopo si sarebbero rivisti e magari avrebbero ballato e fatto la spesa insieme e altre cose insignificanti.

Suo. Il suo orecchino preferito. Sono sempre estremamente banali le cose che fanno piangere all'improvviso.