Quando abbiamo preso atto che no, non era oggi, la nostra giornata può prendere il contorno banale di sempre. Possiamo tranquillamente incamminarci verso l'uscita. Siamo gentilmente pregati di avviarci verso l'uscita. Siamo praticamente obbligati ad avviarci verso l'uscita. Senza neanche stare a domandarci se siamo visitatori, passeggeri o gentili clienti. E apriranno altri centri commerciali, altri stabilimenti balneari, altre discariche. Costruiranno delle ringhierine di ferro per ciscoscrivere l'avanzata delle aiuole. E chiuderanno altre librerie, perchè i libri non li legge più nessuno. Chiuderanno altri fiorai, perchè i fiori non servono più a nessuno. Sono già chiusi quasi tutti i negozi di dischi e chiuderanno anche i kebabbari, prima o poi. Gli alimentari dei peruviani e dei cinesi, che non si capisce se è per via di una specie di complotto, ma chiudono sempre per primi. Le chiese e le galere invece non chiuderanno mai. I benzinai, i parcheggi sotterranei, i centri di permanenza temporanea. Gli uffici anagrafe, gli uffici di collocamento, gli uffici. Continueranno a farci mangiare quello che vogliono, uccidendoci piano e di una morte che hanno deciso loro. Sarebbe bello poterci sputare sopra a questo surrogato di felicità, ma è l'unica parvenza di vita che ci resta e mi dici che fuori da questa finestra sembra che il tempo non passi perchè non si sentono le campane. Suonano ripetutamente il campanello per venderci delle enciclopedie-obbligarci a fare beneficenza-mettere nelle cassette della posta i depliant con le offerte dell'Esselunga mentre un neolaureato psicologo del lavoro sta cercando di testare un gingle pubblicitario su di noi.

Mi hai chiesto: qual'è stato il dolore più grande della tua vita? (Non è che me l'hai chiesto di tua spontanea volontà, è che ci stavamo facendo delle domande).
Il dolore più grande della tua vita:
niente di meno poetico. Un dente cariato. Forse il setto nasale rotto sanguinante sul marciapiede con le macchine che passano. Le ruote che rallentano e non si fermano. Il marciapiede che diventa rosso e la voglia di essere a casa, a letto, nella vasca, in cucina, con una tazza di camomilla (anche solubile) o un digestivo di qualsiasi genere. Come quando cercavo di mettere in valigia tutte le cose possibili senza che tu cercassi di fermarmi. Come quando camminavo e sapevo che ormai non mi avresti più fermato e che ormai non saresti più venuto a cercarmi e mi stava bene così.
Sapevo che esisteva e che prima o poi avrebbe dovuto avere un nome. Come tutte le cose di questo mondo. Sapevo anche che poteva succedere così, en passant, tra una frase banale e una galleria. Ma ho dovuto lo stesso sforzarmi di non piangere e di fare la faccia indifferente (anche se tanto non mi vede, mi dicevo, perchè siamo al telefono ed è anche andata via la linea). Avrei voluto mettere su quel sedile un mazzo di fiori come quelli che mettono ai bordi delle strade dove muore la gente. Avrei voluto cantare un canto funebre. Un treno, un finestrino senza paesaggio, gente sovrappensiero. Un cuore può fermarsi anche con questa nonchalance.