
Appoggiavi con cura il tuo anello sul comodino. Appoggiavamo con cura i vestiti sulla seggiola. E le scarpe non le lasciavamo mai in fondo al letto. Le mettevamo in una cassa del latte di plastica gialla. Il divano era rosso, un rosso ciliegia scuro e non era un vero divano, era un futon dell'Ikea. Vorresti tutti i particolari, tutti i particolari ma se anche ci provassi non potrei descriverti il colore di tutte quelle piastrelline che c'erano nel bagno perchè erano di così tanti celesti diversi che non te li saprei proprio spiegare, davvero. E quando di notte ci affacciavamo alla finestra, ma quale finestra non saprei dirtelo, avevamo sempre gli occhi grandi e le mani fredde. Fissavamo i lampioni di Viale Europa, di Rue Saint Jacques, le luci della Solvay, il campanile della chiesa, il fiume, l'insegna dell'impresa funebre dietro le inferriate.
Ma poi è arrivata anche questa primavera, la nostra felicità di stasera malgrado tutti i governi e il debito pubblico della Grecia, i tuoi occhi non molto grandi, le tue parole cortesi a prescindere dai molti chilometri di autostrada. Parecchi litri di benzina per portare le tue parole a pochi metri dal mare. Il regalo che sto per farti si trova ancora molto lontano da qui, i virus viaggiano attraverso i nostri gesti d'amore e ci stiamo già organizzando per disinfettare tutto. Qualche volta non torni, e io resto in cucina a guardare il rubinetto dell'acquaio e a pensare alle sere estive del 1989 o giù di lì. Qualche volta invece ritorni e i tuoi passi disegnano in giardino delle specie di costellazioni, allora io posso alzarmi dalla sedia e andare in un'altra stanza e tutto cambia in un attimo, la chiave giusta che gira nella serratura e quasi tutti i rumori che diventano familiari. Le nostre facce. Il mio corpo fermo in piedi davanti al tuo. I nostri corpi immobili. I nostri corpi estranei.